La mafia ha vinto, lo Stato ha perso
La mafia ha vinto. Lo Stato ha perso. Nonostante un quarto di secolo di antimafia militante.
Il 21 marzo, da quest’anno e per quelli a venire giornata istituzionalmente riservata alla memoria ed al ricordo dell’impegno delle vittime di mafia, se ne tenga conto: dai giorni delle stragi ad oggi poco o nulla è cambiato. Cortei, fiaccolate, convegni, progetti per la legalità che hanno drenato risorse milionarie, persino le nuove leggi che il Parlamento ha varato ed i tanti nuovi morti che nel frattempo le cosche hanno lasciato sul selciato non hanno portato a quella svolta epocale che era lecito attendersi e doveroso realizzare. È cresciuta la consapevolezza del fenomeno, ma lo Stato non si è ancora riappropriato – non territorialmente e neppure culturalmente – del posto e del ruolo che gli spetta.
La Commissione antimafia istituita dalla Regione Sicilia, guidata da Nello Musumeci, questa consapevolezza l’ha testata tra i banchi, tra gli alunni di scuole medie e studenti universitari di 4 comuni siciliani, due del Messinese ed altrettanto del Catanese. Risultato? Per gli intervistati (che a tutela della genuinità del sondaggio non erano stati informati preventivamente dell’identità del committente) la mafia è più efficiente e forte dello Stato. Imporre il pizzo è una vigliaccata, stampare soldi falsi è grave, ma evadere le tasse è tutto sommato comprensibile e soprattutto, quando ci sono problemi da risolvere – hanno confidato i ragazzi – è preferibile rivolgersi agli uomini d’onore, per avere giustizia e soluzioni certe in tempi più rapidi.
È vero: si tratta di un campione limitato, scientificamente di scarso rilievo statistico, ma fa notizia. Eccome. E non si può far finta che immune da colpe sia il modello culturale al quale la battaglia alle mafie, ed al pensiero mafiogeno, è stata sin qui improntata, quasi per legge. Impostori e speculatori, perché di questo si tratta, con l’ausilio della macchina mediatica, hanno piegato a determinati fini – anche politici – il lavoro dei tanti in buona fede. C’è chi ne ha approfittato per arricchirsi, chi per fare carriera o per consolidare il proprio potere. Ne è venuta fuori una stanca ritualità di gesti, simboli e mitologie: icone ormai logore e consumate – dal prete coraggioso al giornalista minacciato, passando per il magistrato eroe ed il politico sotto scorta – che hanno attirato su di sé l’attenzione dei media e delle giovani generazioni, lasciando che nell’ombra tranquillamente continuasse l’evoluzione della Mafia spa e delle sue consorelle.
Son serviti 25 anni perché anche i custodi dell’ortodossia antimafiosa se ne accorgessero. Eppure, già qualche mese dopo l’uccisione a Palermo di padre Pino Puglisi, avvenuta il 15 settembre del 1993, così un presbitero palermitano commentava su un quotidiano dell’Isola: «Cosa resta di te e del tuo operato? E’ certo che Brancaccio è passata da territorio emarginato ad area geografica al centro dell’attenzione, ma si sta impostando un lavoro diverso da quello che avevi iniziato tu. Forse ai quattro famosi peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio ci sarebbe da aggiungerne un quinto: rendere inutile la morte dei profeti».
Aveva ragione da vendere, ma è rimasto inascoltato, come tanti. Ed oggi, a chiedere ad un bambino chi sia più forte, la risposta è sempre quella: la mafia.