Reati in calo, ingiustizia in aumento
È notizia fresca: incontrando i giornalisti il questore di Milano s’è detto stupito del boom di richieste di porto d’armi, a suo parere ingiustificato dal momento che il numero dei reati, in realtà, è da tempo in forte, costante diminuzione. E giù dati in gran quantità, a sostenere la tesi. Ed una considerazione politica più o meno indiretta: la percezione di pericolo che l’opinione pubblica avverte sarebbe da ricondursi agli allarmismi ingiustificati di chi, strumentalmente e per interessi di parte o di partito, soffia invece sul fuoco dell’insicurezza.
I numeri non si discutono, ma non sempre spiegano. Specie quando sono parziali. Quel che manca al racconto della Questura milanese per essere credibile fino in fondo è la lettura completa delle statistiche: perché se da un lato è vero che, nonostante i tagli e i sacrifici, le forze dell’ordine riescono ancora ad assicurare mediamente una presenza di buon livello ed efficacia sul territorio, è altrettanto indubitabile che quel avviene dopo, quando un criminale è stato preso e sbattuto in cella – subito o al termine di lunghe e costose indagini – ha dell’assurdo.
Andando a sfogliare ad esempio la relazione con la quale, a gennaio, il Primo presidente della Corte di Cassazione ha inaugurato l’anno giudiziario, si scopre che intanto i reati sono diminuiti, ma in gran parte per effetto delle continue depenalizzazioni. Dunque, una gran mole di fatti che prima erano considerati penalmente rilevanti oggi non lo sono più, ma conservano comunque la loro carica offensiva che, inevitabilmente, non può che turbare la sicurezza del cittadino. Poi: passando a tracciare il destino dei procedimenti penali, sempre il Primo presidente della Suprema Corte rivela che sì, si accorciano i tempi del giudizio e s’assottiglia la mole degli arretrati, ma anche grazie al contributo determinante della prescrizione: + 3,3% nel 2016 rispetto al biennio 2014-2015. Per la precisione, 31.610 querele e denunce finite nel nulla per la lentezza della macchina giudiziaria, pure in questo caso intaccando il senso di sicurezza dell’opinione pubblica, che vede restare impuniti i responsabili dei reati consumati a proprio danno. Non bastasse, c’è da considerare cosa succede quando i reati scampano alla ghigliottina della depenalizzazione o della prescrizione.
Le rapine, per dire, il reato predatorio più temuto e, negli ultimi tempi, all’origine di diversi fatti di sangue: nel 2016, conferma il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, di 10.139 arrestati per rapina in cella ne erano rimasti 6.120. E gli altri? Ai servizi sociali o ai domiciliari (1.823) o già di nuovo a spasso (2.196), liberi di cambiar vita o di tornare all’antico mestiere, e magari di tornare a tartassare le vittime già vessate.
Come volete che ci senta quando questo accade (ed accade spesso)? Insicuri. E arrabbiati con lo Stato. «Tanto lavoro per nulla», ripetono sconsolati persino i vertici dell’Associazione nazionale dei funzionari di polizia. E se lo dicono loro un motivo ci sarà. Lo stesso che porta a concludere che i reati saranno pure sempre meno, ma che la giustizia, in Italia, è il nome di un’utopia. E che fin quando non ci saranno pena e certezza di essa, delinquere resterà pur sempre un buon lavoro, di sicuro meno rischioso e più redditizio dell’onestà.
Tante valide e fondate ragioni a dimostrazione d’un dato: la percezione di insicurezza non è un’opinione, ma una realtà. Drammatica.