L’italiano prima di tutto!
Rifatta l’Italia, bisogna fare l’italiano.
La nobilitate del nuovo Governo e delle sue politiche si parrà non soltanto sulle questioni economiche, cui tutti guardano perché senza denari in tasca non si mangia, o sul riposizionamento del Paese sullo scacchiere strategico mondiale, che si tratti di Russia, Nato o migranti. No. Non solo lì, per lo meno. C’è una questione diversa, che non entra nei portafogli ed è per questo impalpabile, ma è altrettanto essenziale. È idea di cultura, ed ancor più di identità, senza la quale nulla più si tiene insieme. E vale ancor più in un’epoca in cui l’imperativo pare essere diventato, per moda o convinzione, quello di pensare all’Italia, prima di tutto.
Il punto: che Italia può esservi, se non v’è o presto non vi sarà più una lingua italiana? Quando nel 2014 il Politecnico di Milano stabilì l’obbligo dell’inglese per tutti i corsi di master e dottorato, mezzo Paese alzò le barricate. L’altra metà, invece, se ne infischiò o si schierò a difesa del multilinguismo, per la considerazione che in fondo saper esprimersi in un idioma comprensibile ai più, invece che ai pochi, sarebbe la soluzione logica e migliore.
La tesi non manca di fondamento. Diventa però meno solida se si accetta di sacrificare, sull’altare dell’universalità, il particolare. Che poi, nello specifico, è anche identità: un conto è la globalizzazione, va bene l’internazionalizzazione, nulla osta alla scelta dell’inglese come codice espressivo di valenza mondiale, ma la difesa della lingua nazionale, la sua stessa esistenza, non è un retaggio del passato. È ben altro: è garanzia di trasmissione del patrimonio storico e dell’identità nazionale. È conoscenza della storia stessa, sin qui non a caso negata da un popolo (e da una classe dirigente) a tratti balbuziente, incapace di coniugare parola e pensiero e di sentirsi orgogliosamente italiana, ad esempio, davanti al Vittoriano, simbolo di una Patria negata perché scomoda.
Il 2030, sentenziava qualche tempo fa l’Accademia della Crusca, l’italiano sparirà, soppiantato dall’inglese e dalle contaminazioni imposte da cambiamenti demografici e nuove tecnologie. Previsione fosca, probabilmente eccessiva. Ma ricordarsi di essere italiani anche nella lingua e nello scritto non è memoria eretica. Come non è eresia aspettarsi che nell’epoca del cambiamento preteso e sbandierato muti anche la decisione del ministero dell’istruzione di redigere solo ed esclusivamente in inglese un Sillabo programmatico dedicato ad imprese e scuole: fatta l’Italia, mentre si fanno gli italiani, non bisogna scordare l’italiano.