Ruby: come il sale su Cartagine
Il processo Ruby passerà alla storia non solo per l’assoluzione di Silvio Berlusconi, ma perché con esso partì, mediaticamente, l’operazione “Bunga Bunga”: una delle più incredibili campagne diffamatorie mai costruite a tavolino contro un leader democraticamente eletto. Quella che era solo una barzelletta che Berlusconi amava raccontare in pubblico è diventata, per un’opinione pubblica pilotata dai giustizialisti di redazione, la prova provata di una condotta immorale (oltre che illecita), con cui distruggere la credibilità internazionale del premier italiano e la sua dignità personale.
Berlusconi, su tutti i media esteri, divenne l’uomo del Bunga Bunga. Su questa distorsione della verità sono stati costruiti processi comunicativi, finte battaglie culturali e persino complesse analisi sociologiche sul ruolo della donna umiliata dal berlusconismo imperante; si sono sviluppate gag (come quella del comico britannico Sacha Baron Cohen che inserì il riferimento a Berlusconi e al Bunga Bunga nel suo film “The Dictator”) e spot di grandi aziende (i pubblicitari della Ford utilizzarono le caricature di Berlusconi, di Ruby e della Minetti per lanciare la campagna pubblicitaria di un modello auto in India; campagna poi bloccata). Su tutte le pagine dei più importanti giornali stranieri, negli editoriali degli analisti politici europei e americani, il nome di Berlusconi si accompagnò a commenti negativi, spesso ridicolizzanti, basati su un giudizio che era solamente morale. Era impossibile spiegare agli osservatori esteri che in Italia un premier era inquisito e condannato con un processo costato milioni di euro per una telefonata di quattro minuti e per reati che le vittime negavano di aver subito.
Il Rubygate è servito ad una sola cosa: annientare la credibilità pubblica di Berlusconi trascinandola nel discredito internazionale compromettendo l’uomo di fronte ai suoi elettori e al mondo. L’immagine di un premier che fa sesso con ragazze minorenni, che costringe funzionari pubblici a depistare verità scomode e che organizza festini orgiastici nella sua casa con prostitute, non serviva a colpire Berlusconi in quanto politico ma in quanto persona; serviva ad annientarne il carisma, alterando definitivamente il giudizio storico.
Con il processo Ruby, l’attacco della magistratura ideologizzata a Berlusconi si è spostato su un piano diverso: l’obiettivo non era più la semplice eliminazione politica ma la costruzione di una “damnatio memoriae”.
Bisognava trasformare la più incredibile esperienza democratica degli ultimi trent’anni, in un buco nero nella coscienza del paese, in una parentesi autoritaria corrotta e immorale di cui l’Italia doveva vergognarsi. Gli altri processi servivano a togliere di mezzo Berlusconi dalla vita attiva del paese (colpendo lui, le sue aziende, il progetto politico che aveva costruito); il processo Ruby serviva a cancellarne l’onore. Come con Cartagine: non bastava distruggere la città, ma occorreva cospargerla di sale perché nulla più ricrescesse e non vi fosse più memoria di essa.
È andata male. Il livore che accompagna i commenti rabbiosi dei campioni del moralismo straccione dimostra che ora è possibile restituire alla verità ciò che in questi anni si è falsificato.