Mauro Rotelli: l’ennesimo caso di una giustizia assurda
“Pronto, ciao Mauro, ma è vera ‘sta storia?”.
“Quale storia?”
“Che c’è un mandato di arresto nei tuoi confronti”.
È l’Ottobre del 2007 quando Mauro Rotelli, giovane assessore della giunta di centrodestra di Viterbo, riceve a casa questa telefonata da un suo amico cronista. Dopo pochi minuti di smarrimento, ne riceve una seconda; è la sua segreteria: “Assessore dovrebbe venire in ufficio; c’è la polizia giudiziaria”.
Il tragitto verso l’assessorato è breve, meno di 5 minuti in scooter. Viterbo è una città piccola, un gioiello medioevale che ha mantenuto intatta la sua dimensione comunitaria. Lungo il percorso Rotelli viene avvicinato da alcuni cittadini e da un altro giornalista di una testata locale: “Ma che è questa storia del tuo arresto?”
Tutti sapevano tutto, tranne lui, il diretto interessato. Prassi ordinaria di una giustizia che funziona a mezzo stampa e viola la più elementare garanzia di un cittadino: quella di una riservatezza che tuteli privacy e dignità, partendo dal presupposto che si è innocenti fin quando non si è colpevoli.
In ufficio Rotelli trova la PG che gli notifica l’arresto. Nel frattempo una piccola folla di curiosi e giornalisti aspetta di sotto. La voce si è sparsa come il vento. Le foto del giovane assessore caricato in auto dalla polizia che gli tiene bassa la testa come un delinquente comune, fanno il giro d’Italia. È dai tempi di Enzo Tortora che funziona così; era il 1983 quando i carabinieri lo andarono a prelevare in albergo, lo portarono in commissariato e da lì lo trasferirono in carcere parcheggiando l’auto 100 metri dopo, in modo tale che Tortora passasse ammanettato tra un doppio cordone di cameraman e fotografi nel frattempo avvertiti. La gogna mediatica è uno strumento egualitario: rende simili il famoso presentatore e il giovane assessore di provincia.
L’accusa nei confronti di Rotelli è “corruzione e turbativa d’asta”. Secondo i Pm, l’assessore avrebbe pilotato un bando pubblico affidando la gestione delle mense scolastiche ad un’azienda politicamente vicina, in cambio di assunzioni di amici e “tesseramenti ad Alleanza Nazionale”, il suo partito di riferimento. Rotelli al momento dell’arresto aveva 36 anni e apparteneva a quella “Generazione Atreju” inventata da Giorgia Meloni dalle ceneri del Fronte della Gioventù e cresciuta con il mito di Falcone e Borsellino.
Rotelli si fece 54 giorni di arresti domiciliari e un’interminabile serie di udienze. Ieri, dopo sette anni, è stato prosciolto insieme agli altri imputati (un dirigente del comune di Viterbo e la titolare dell’azienda implicata). Rotelli non ha corrotto e non ha turbato alcuna asta. In compenso, gli è stato ipotizzato un “abuso d’ufficio”, tra l’altro prescritto. Gli esperti di questioni giudiziarie, quelli che capiscono i codici segreti dei processi, mi spiegano che spesso funziona così: tu sei accusato di un reato molto grave e dopo anni, se vieni prosciolto, te ne contestano un altro, lievissimo e indimostrabile perché prescritto di cui non sapevi nemmeno di essere indagato e per il quale quindi, non ti sei difeso. Il codice penale diventa un libro alchemico con cui trasformare la natura di un reato. Come a dire: “una macchia la devi comunque avere”.
Ciò che rimane sono i 54 giorni di arresto cautelare (e sette anni di processi) per un presunto reato che non li prevedeva, solo ipotizzato a posteriori e non dimostrabile.
Ci sono storie di giustizia ingiusta che sono difficili da decifrare perché, al di là dell’esito finale, producono effetti collaterali che sfuggono alle analisi tecniche: percorsi di vita distrutti, relazioni sociali frantumate, affetti, immagine pubblica o lavoro compromessi.
Noi, in passato abbiamo raccontato alcune di queste storie: come quella di Massimo Mallegni l’ex sindaco della Versilia vittima di un sistema di potere che ha intrecciato i magistrati con i loro parenti, in un’Italia manzoniana fatta di soprusi, piuttosto che in uno Stato di diritto.
O come il caso di Pietro Pilello, il professionista vittima del circo mediatico-giudiziario entrato in un girone dantesco per una telefonata di 57 secondi.
Casi in cui cittadini hanno pagato errori di altri che non pagano mai.
Mauro Rotelli alla fine può dirsi fortunato: nel suo caso la giustizia ha fatto il suo corso. Anche se in fondo si è sbagliata. Questo è l’assurdo.