Se ne va Napolitano, il Poroshenko italiano
Le dimissioni di Giorgio Napolitano consentono di affrontare, senza più condizionamenti di ruoli istituzionali, alcuni pezzi della nostra storia recente; anche per spiegare quali dinamiche politiche avvengono quando il corso normale di una democrazia viene alterato. Per farlo useremo il parallelo con l’Ucraina, nazione in cui la sovranità nazionale è, di fatto, sospesa.
I MINISTRI DI POROSHENKO
Il 2 dicembre scorso, il Presidente ucraino Petro Poroshenko ha nominato tre cittadini stranieri come ministri (rispettivamente alle Finanze, all’Economia e alla Salute); ma siccome la Costituzione vieta ai non ucraini di ricoprire incarichi di governo, Poroshenko, ha pensato di dar loro la cittadinanza il giorno stesso della nomina; salvando così l’apparenza e la sostanza.
I tre ministri stranieri, oggi ucraini, sono stati scelti tra fidati banchieri e tecnocrati indicati da Washington e dal Fmi. I loro profili rispecchiano gli interessi dell’Occidente in Ucraina: un’economista americana, già dipendente del Dipartimento di Stato Usa e funzionaria dell’Ambasciata americana a Kiev; un banchiere lituano, gestore di un fondo d’investimento svedese che opera nei mercati ex sovietici; un tecnocrate georgiano, già membro del governo di Tiblisi nel 2008. Dei tre e della loro futura funzione, ha parlato con dovizia di particolari il nostro Gian Micalessin in questo articolo di un mese fa.
L’OPERAZIONE MONTI
Nel 2011 Giorgio Napolitano fece qualcosa che ricorda molto da vicino l’operato di Poroshenko: il 9 novembre nominò inaspettatamente Mario Monti senatore a vita; cinque giorni dopo (il 16 novembre) Monti divenne Presidente del Consiglio per scelta dello stesso Napolitano. Quella nomina per gli “altissimi meriti in campo scientifico e sociale con cui ha illustrato la Patria” (così recitava allora la nota ufficiale del Quirinale), servì come copertura politica e istituzionale all’operazione che qualcuno ha ribattezzato “Complotto del 2011”; operazione, già orchestrata da mesi, che destituì il governo Berlusconi democraticamente eletto e lo sostituì con un altro non eletto da nessuno ma gradito ai circoli finanziari di Francoforte e Bruxelles, ai tecnocrati del Fmi e ad alcune cancellerie europee.
FORMA E SOSTANZA
I due episodi spiegano come, in politica, salvare la forma sia la regola fondamentale quando si viola la sostanza. Questo è avvenuto anche nei momenti più tragici della storia in cui la sovranità di un popolo è stata brutalizzata: nel 1938, un mese dopo l’ingresso delle truppe naziste a Vienna, Hitler fece indire il plebiscito che doveva far apparire l’annessione dell’Austria alla Germania come frutto di una volontà popolare. Gli austriaci si trovarono così a votare “liberamente” se diventare Reich con i carri armati tedeschi nel salotto di casa, informati dalla macchina propagandistica di Berlino e con una scheda elettorale in cui lo spazio per il “No” era praticamente invisibile.
Per carità, nessuno vuole paragonare Mario Monti o i nuovi ministri ucraini ad Arthur Seyss-Inquart, il Cancelliere austriaco che eseguiva al telefono gli ordini di Göring (anche se qualche ordine dalla Merkel siamo convinti che Monti l’abbia eseguito, e qualche telefonata da Washington i tre neo-ministri ucraini l’avranno ricevuta); vogliamo solo dire che la storia, sotto forme diverse, ha caratteristiche che si ripetono.
Nell’Italia (per fortuna ormai di ieri) dell’ex comunista Napolitano e nell’Ucraina dell’ex oligarca Poroshenko, la forma e la sostanza s’intrecciano ed aiutano a dissimulare, agli occhi dell’opinione pubblica, violazioni e trame più o meno visibili; fa poca differenza se lo scippo della sovranità avvenga per ordine di Bruxelles o di Washington.
Su Twitter: @GiampaoloRossi
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