Isis e Foreign Fighters: le 5 cose da sapere
I Foreign Fighters, i combattenti stranieri islamici impiegati in Siria e in Libia, sono oggi considerati una delle principali minacce alla sicurezza dell’Occidente, principalmente per due ragioni:
1) il fattore di rischio espansione del conflitto (legato a combattenti che non operano con legami territoriali);
2) la possibilità che molti di loro possano rientrare nei paesi di origine (soprattutto europei) sotto forma di minaccia terroristica.
Ecco cinque cose da sapere su di loro per compredere il pericolo:
1) QUANTI SONO VERAMENTE?
Le cifre sui Foreign Fighters impegnati in Siria sono controverse perché non esistono dati ufficiali e i servizi d’intelligence faticano ad avere informazioni certe.
The International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR), analizza da anni il fenomeno attraverso un complesso database proveniente da fonti aperte sia dirette (analisi dei social media e dei siti jihadisti), sia indirette (oltre 1.500 fonti media internazionali).
L’ultimo report del Gennaio scorso stima a 20.000 il numero dei combattenti stranieri in Siria dal 2011 ad oggi, di cui un quinto (4.000) cittadini europei. I numeri comprendono anche coloro che sono morti o quelli che sono rientrati nei loro paesi d’origine.
La cifra è cresciuta quasi del doppio in meno di due anni: il precedente report dell’Aprile del 2013 stimava un massimo di 11.000 Foreign Fighters di cui circa 1.000 europei.
Anche nel teatro di guerra afghano si sono contati circa ventimila combattenti stranieri ma in un arco di tempo che andava dal 1979 (invasione russa) al 2001 (inizio invasione occidentale). Quindi il conflitto in Siria è “la più grande mobilitazione di combattenti stranieri islamici almeno dal 1945”.
2) DA DOVE PROVENGONO?
Complessivamente sono 50 i paesi coinvolti nel fenomeno, ma il 10% dei combattenti islamici (circa 2.000 unità) verrebbero dalla sola Arabia Saudita.
La stragrande maggioranza proviene dal Medio Oriente (11.000); mentre 3.000 dai paesi dell’ex Unione Sovietica (Russia e Uzbekistan in testa).
In Europa, il paese che fornisce più combattenti islamici è la Francia (1.200) una cifra molto più ampia di quella fornita nel settembre scorso dalle autorità di Parigi. Poi Gran Bretagna e Germania con circa 600 Foreign Fighters ciascuno.
Da notare che, rispetto alla popolazione residente, il paese con il maggior numero di jihadisti attivi è il Belgio: 440 islamisti (40 per milione di abitanti). Seguono Danimarca e Svezia; tutti e tre paesi con politiche d’immigrazione e d’integrazione particolarmente aperte.
3) CON CHI COMBATTONO?
Il dato, relativo solo agli operativi in Siria, dimostra che il 55% dei Foreign Fighters combatte con l’Isis ed il 14% con Jabhat al-Nusra (l’organizzazione estremista affiliata ad Al Qaeda).
Solo il 2% è nelle file del Free Syrian Army e di altri gruppi ribelli minoritari filo-occidentali. Un restante 30% circa non sarebbe militante di alcun gruppo specifico.
Questo dimostra l’errore strategico degli Usa nell’aver addestrato ed armato combattenti stranieri in Siria, (con l’obiettivo di far cadere il regime di Assad), pensando poi di poterli controllare dall’interno delle formazioni moderate.
4) SONO UN FENOMENO NUOVO?
Quello dei Foreign Fighters islamici non è un fenomeno nuovo; tutt’altro. Abbiamo visto come fu riscontrato massicciamente durante l’invasone sovietica in Afghanistan dove però i combattenti stranieri era tutti mediorientali. Anche in Bosnia (1992) e in Cecenia (1996 e 1999) si conobbero ma in misura ridotta. Foreign Fighters hanno operato, in maniera marginale, anche in Somalia e in Mali.
Dall’invasione occidentale in Afghanistan (2001) e poi, soprattutto, con quella dell’Iraq si è iniziato a monitorare anche il fenomeno dei jihadisti europei.
Da notare che se quelle in Afghanistan, Cecenia e Bosnia, erano considerate guerre difensive (la protezione dei fratelli mussulmani), quelle in Iraq e Siria sono (anche nella propaganda di molti predicatori) guerre finalizzate alla costruzione di uno Stato Islamico (sotto forma di Emirato o Califfato); cosa che ha dato motivazione al reclutamento e all’adesione di molti più volontari.
5) CHE PERICOLO RAPPRESENTANO?
Nella stragrande maggioranza dei casi i Foreign Fighters non sono truppe di élite. Reclutati prevalentemente per motivi ideologici e/o religiosi, essi ricevono un addestramento limitato al combattimento in zona di guerra; tecniche base d’ingaggio, tecniche di combattimento corpo a corpo e capacità di utilizzo di armi di piccolo calibro (fucili d’assalto, bombe a mano e pistole). Pochissimi di questi jihadisti hanno un addestramento avanzato necessario per condurre un attacco terroristico in un ambiente ostile. Quasi nessuno di loro è addestrato al “terrorism tradecraft”, quell’insieme di capacità operative che includono: organizzazione e gestione di nuclei operativi, comunicazione clandestina, conoscenza articolata di esplosivi e tecniche di attentati, pianificazione sorveglianza e capacità di depistaggio dal controllo dell’intelligence nemica.
Il rischio maggiore non sembra essere quello di replicare attentati spettacolari (stile 11 Settembre); ma quello di produrre attacchi di tipo più tradizionale attraverso “cellule dormienti” rientrate in patria e magari lasciate “in letargo” per più tempo e innescabili in maniera spontanea e per questo imprevedibili (come nel caso della strage di Charlie Hebdo).
CONCLUSIONE
Insomma quello dei Foreign Fighters non è un pericolo nuovo ma uno dei tanti pericoli sotttovalutati dall’Occidente (Europa in primis) e che oggi si salda con il tema dell’immigrazione incontrollata dalle aree di guerra. Con il Mediterraneo che si trasforma in una polveriera con masse di profughi che premono sui confini sud dell’Europa e una sostanziale impreparazione (soprattutto di tipo culturale) delle leadership occidentali ad affrontare l’emergenza, il fenomeno dei Foreign Fighters rischia di trovare terreno ancora più fertile per sviluparsi.
Su Twitter: @GiampaoloRossi
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