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In questi giorni sembra che l’America voglia dichiarare guerra al mondo intero: dagli annunci a mezzo stampa di imminenti attacchi alla Russia, alla dislocazione di truppe e mezzi nel Baltico e nell’Europa orientale sotto egida Nato, alle rivelazioni di Wikileaks sulla Clinton che, già tre anni fa, davanti ad una platea di banchieri di Goldman Sachs (che ormai rappresentano il vero consiglio strategico della signora) svelò la sua idea di circondare la Cina con “un anello missilistico” se Pechino non avesse convinto la Corea del Nord a rinunciare al suo programma nucleare.

A volte sembra che per l’America il mondo sia solo un terreno di conquista; un enorme tavola di Risiko dove posizionare carri armati colorati. Forse, ad un livello più inconscio, per una nazione nata con la Conquista del West, tutto diventa un’interminabile frontiera da colonizzare e occupare; e i popoli che ci abitano, indiani da chiudere in una riserva.

Il vero problema è che l’Occidente assiste agli impulsi guerreschi dell’America con un misto di servilismo (quelli che “se critichi l’America sei anti-americano”) o complottismo patologico (quelli che “l’America è l’origine dei mali del mondo”); ma il più delle volte con distratta indifferenza.
Per noi europei in modo particolare, le guerre americane sono per definizione “guerre di Liberazione”, perché ci liberarono dal Nazismo (anche se in realtà Hitler fu sconfitto più dai 20 milioni di russi, soldati e civili, che s’immolarono sul Fronte Orientale); ed in fondo è forse (ripeto: forse) per la presenza americana sul territorio europeo se questa parte di Europa oggi non ha conosciuto l’orrore del comunismo.

Questo è il motivo per cui è passato quasi in sordina l’anniversario dei 15 anni di guerra in Afghanistan, quella che Ron Paul, il padre della destra libertaria americana, patriota e profeta inascoltato del ritorno all’America dei Padri Fondatori, ha definito la “guerra dimenticata”; esempio di quella “schizofrenica politica estera americana che in Afghanistan combatte Al Qaeda e poi l’appoggia in Siria”.

AFGHANISTAN: LA SPERANZA TRADITA  DI UN ADOLESCENTE
E allora, nei giorni in cui a Washington si fanno rullare i tamburi di future guerre, vale la pena leggere un articolo pubblicato su The Atlantic da Habib Zahori, giornalista canadese di origini afghane.
Zahori all’epoca dell’invasione aveva 16 anni e viveva in un Afghanistan devastato da una guerra civile tra talebani e signori della guerra; per questo accolse la notizia dell’arrivo americano con sentimenti contrastanti: “Avevo paura (…) ma ero emozionato, perché un’invasione degli Stati Uniti avrebbe significato anche la fine del dominio barbaro dei talebani e un futuro migliore”. Questa speranza accompagnava tutta la sua famiglia: “mio padre ci aveva detto che gli americani non solo avrebbero trasformato l’Afghanistan in un altra Dubai, ma avrebbero anche portato tutti i criminali di guerra davanti alla giustizia”.

La speranza è un’ancora per ogni uomo ma a volte può diventare una calda coperta che serve a scaldare il freddo della realtà generando un meccanismo di giustificazione: “Fu per questa speranza che la notizia delle ripetute vittime civili dei bombardamenti americani  (…) non cambiò il mio sostegno per l’invasione. Un futuro migliore ha un prezzo” .
In questo passaggio c’è tutta l’allucinazione manipolatoria che l’America riesce ad imporre all’inconscio del mondo: Kabul è come Dresda e per fortuna, non come Hiroshima; comunque il prezzo che si dovrebbe pagare per la libertà imposta dai vincitori. Il problema è quando i vincitori non vincono e le loro bombe non portano pace ma aumentano la guerra.

UNA GUERRA CHE HA PRODOTTO PIÙ GUERRA
Il imagesquadro che Zahori fa dell’Afghanistan di oggi è impietoso: il paese “è uno dei principali beneficiari degli aiuti internazionali da più di un decennio (…) eppure è ancora uno dei più poveri al mondo, 10 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà e solo un quarto della popolazione è alfabetizzata. Una grossa fetta del denaro degli aiuti è finito in conti bancari off-shore dei principali signori della guerra e dei loro compari”.
Zahori ricorda come le parole di suo padre allora “erano musica per me” ma oggi vede come “l’invasione degli Stati Uniti non ha posto fine alla guerra ma ne ha portata di più”.

Obama ha spostato il ritiro americano al 2017 ma intanto “i talebani controllano più territorio di quanto ne controllassero nel 2001”; e, dati Nazioni Unite “solo lo scorso anno c’è stato il record di 11.000 civili afghani uccisi o mutilati”.

UN IRREFRENABILE BISOGNO DI GUERRA
All’impietosa analisi di Zahori noi aggiungiamo altro: secondo uno schema che l’America riproduce spesso, l’invasione in Afghanistan non aveva alcun fondamento morale: né il popolo, né il governo avevano alcuna responsabilità negli attacchi dell’11 Settembre; i talebani erano creature della Cia ai tempi dell’invasione sovietica, quando Osama Bin Laden era considerato in Occcidente “un uomo di pace

In fondo è quello che l’America ha continuato a fare in tutto il mondo: in Somalia, in Libia, in Siria, in Sudan, in Yemen e nelle decine di nazioni dove Washington interviene di nascosto con i suoi contractor o con i suoi droni: l’irrefrenabile desiderio di guerra si scatena spesso senza alcun disegno strategico lasciando rovine e desolazioni maggiori di quelle trovate.

Coloro che oggi fanno rullare i loro tamburi di guerra come fossero il soundtrack di un film di Hollywood sappiano che cosa produce questa retorica criminale. Dovremmo capirlo anche noi europei prima che la disillusione si trasformi in tragedia anche per le nostre nazioni.


Su Twitter: @GiampaoloRossi

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