I tempi sono cambiati e oggi i giovani laureati in Giurisprudenza a cosa aspirano? Come è cambiata la figura dell’esperto di diritto nel corso delle generazioni? Lo abbiamo chiesto all’Avvocato Roberto Casati del noto studio legale Linklaters, tra i più prestigiosi avvocati d’affari a livello internazionale specializzato in operazioni straordinarie in ambito societario, finanziario e del diritto commerciale comunitario e internazionale.

 

Lei ha gestito molte delle più grandi operazioni di M&A e joint venture italiane e ha rappresentato e rappresenta alcune delle maggiori società quotate italiane, come è cambiato il suo lavoro da 30 anni a questa parte?

La professione dell’avvocato è grandemente mutata negli anni, sia dal punto di vista tecnologico e organizzativo, che da quello del rapporto con i clienti. Cambiano le strutture, le procedure, le pratiche, tutto è cambiato. Ma a parte tutto ciò, per quanto riguarda l’M&A, ciò che è più rimarchevole è stato il cambiamento del mercato medesimo. C’è stato un irrompere preponderante della finanza e dei cosiddetti “financial sponsors” in quello che, precedentemente, era un mercato di tipo prevalentemente industriale.  Prevalgono ora – benché non sia ovviamente l’unica componente — logiche di tipo finanziario, vale a dire valutazioni sui flussi di cassa e ritorni finanziari a breve periodo, piuttosto che progetti industriali a lungo termine. Sicuramente poi vi è stato un altro fattore molto significativo nel mercato: è crollato il foreign direct investment di tipo tradizionale, ovvero gli investimenti stranieri di tipo insediativo e di tipo industriale. Negli anni ’80 e ’90 noi abbiamo avuto una grande quantità di società americane, giapponesi, svedesi e d’altri paesi che sono venute in Italia e hanno impiantato dei business ex novo o hanno acquistato delle piccole e medie realtà e le hanno ampliate ed integrate nelle loro strutture globali. Da allora questo non è più sostanzialmente successo.

 

Perché?

La ragione principale a mio avviso è la scarsa competitività italiana. Ma questo sarebbe un discorso troppo lungo. Sia come sia, a fronte della sempre maggiore internazionalizzazione e liberalizzazione dei mercati, il sistema industriale italiano – vuoi perché “protetto”, vuoi perché “statale” — non ha retto il passo. Le grandi operazioni infrastrutturali e di privatizzazione hanno creato un po’ la cesura sul finire degli anni ’90.

 

E al giorno d’oggi?

Viviamo adesso un periodo di interventismo dello Stato molto poderoso: chi ha assistito con sollievo allo smantellamento dell’IRI, dell’EFIM e della GEPI (per citare le più note), da anni ormai assiste con apprensione al ritorno dell’economia nelle mani dirette dello Stato.   Per non parlare del fatto che i controlli sull’economia sono sempre più pregnanti e che il fiume di denaro che proviene e proverrà dal “pubblico” (EU o Italia che sia) avrà l’effetto di aggravare l’arretratezza e scarsa competitività del nostro sistema industriale (e — benché questo sia un altro discorso — incrementerà la presenza della criminalità organizzata nell’economia).

 

Quando ha cominciato la sua carriera il clima era diverso…

Quando ho iniziato la professione non c’era la Consob, non c’era l’Antitrust, non c’erano insomma le altre agenzie c.d “indipendenti” di settore, non c’era nulla di tutto questo e – dal punto di vista legale — le iniziative imprenditoriali erano molto più libere. C’era peraltro la normativa valutaria, che era molto stringente e irrazionale, ma non c’era il “Golden Power”, che, sotto il pretesto della “strategicità”, consente al governo una discrezionalità enorme nel controllare, vietare e condizionare operazioni di M&A.

 

Ci faccia degli esempi pratici delle conseguenze relative a queste restrizioni.

Gli studi legali che operano nell’M&A sono sommersi da istanze da rivolgere al Governo o ad altre autorità per ottenerne autorizzazioni antitrust, regolatorie, “Golden Power”, e d’altra natura. Non è mai veramente chiaro ciò che sia lecito e cosa non lo sia, così compromettendo lo stato di diritto e scivolando verso il mero arbitrio dello Stato. Il settore finanziario, poi (banche, assicurazioni, gestori del risparmio, etc.) è regolato in maniera capillare nei vari paesi europei ed esteri e ogni operazione in tale ambito è sopposta al vaglio di plurime e molteplici autorità. Stiamo assistendo un cliente a realizzare un’operazione internazionale che coinvolge diversi Paesi e l’aspetto regolatorio e il numero di autorizzazioni che dobbiamo ottenere nei singoli Paesi è incredibile, con formalità, istanze, procedure e tempistiche che possono durare anche un anno e oltre. In questo modo non si riesce a lavorare bene, soprattutto in un mondo volatile, veloce e mutevole come l’attuale: pensare di pianificare un’operazione oggi e portarla a termine in un anno e mezzo o  due per un imprenditore è molto difficile da considerare.

 

E quindi in che modo vi adeguate?

Gli avvocati in tutto questo si adeguano e naturalmente, se c’è da fare un’istanza alle autorità, la fanno. Ma questo comporta uno scadimento della qualità del lavoro. In quanto una cosa è il diritto che si fonda su dei principi generali organici, su delle armonie, su dei precedenti storici, su tutta una concezione globale socioeconomica del sistema. E un’altra cosa è il profilo regolatorio, che è un po’ come il codice della strada: oggi chiudono una strada, domani ne invertono il senso di marcia, senza una ragione sistematica. È difficile essere creativi in questo contesto, e l’assistenza legale spesso si riduce a seguire pedissequamente il regolatore – o, peggio, il funzionario che se ne occupa.  Il ricorso al giudice non è spesso una opzione percorribile, vuoi per legge o per i tempi che comporta, e la sudditanza delle imprese – e dei loro avvocati – al regolatore e al governo aumenta esponenzialmente.

 

In America, invece, come funziona oggi?

Gli Stati Uniti, non dimentichiamolo, hanno inventato le “autorità indipendenti” e la situazione colà non è migliore della nostra quanto allo strapotere delle autorità ammnistrative. Non si può, a mio parere, lasciare tutta questa discrezionalità all’autorità amministrativa, in quanto a quel punto un avvocato non ha più strumenti giuridici per contrastarla e si diventa, in un certo qual modo, dei sudditi. Ovviamente infatti, quando si ha a che fare con il Governo, non è come avere a che fare con i privati dove c’è un rapporto paritario e poi un terzo — il giudice — infine decide. Il Governo ha un potere superiore, rafforzato grandemente dal sistema della “giustizia amministrativa”, che limita l’impugnabilità dei provvedimenti amministrativi nonché i rimedi che i privati possono ottenere. In questo modo c’è una diminuzione della libertà e della tutela dei diritti e anche il nostro ruolo di  avvocati è degradato, in quanto non ci appoggiamo più a dei principi e caposaldi, e soprattutto a dei diritti da difendere, ma dobbiamo gestire la discrezionalità – talora di fatto assoluta – delle autorità amministrative.

 

Quale è la differenza tra essere un avvocato d’affari e un giurista d’impresa?

 Il giurista d’impresa è dipendente di una società e lavora pertanto per un unico cliente, cioè la società stessa.  Invece, l’avvocato esterno è e deve essere indipendente e naturalmente lavora per più clienti. Inoltre, di solito, è il giurista d’impresa, interno alla società, che interagisce con l’avvocato esterno in relazione ad operazioni di M&A (quando non vengono svolte dal medesimo legale interno) o per contenziosi.  Il termine “avvocato d’affari” si riferisce ad un professionista, esterno all’impresa, e con esso si vuole riferirsi a coloro che si occupano di operazioni di M&A. (Anche se devo dire che io non mi riconosco nel termine di “avvocato d’affari”, che mi pare avere qualche connotazione colloquiale e poco lusinghiera.)

 

 

La professione del giurista d’impresa pare che sia una figura sempre più rivalutata tra i giovani dimostrata dalla crescente domanda nel mercato. Questo è dovuto anche alla prospettiva di crescita professionale del legale d’impresa e all’approccio più manageriale al lavoro?

La richiesta e l’esigenza di diritto nell’impresa sono aumentate enormemente. Quando iniziai questa professione, tanti anni fa, pochissimi clienti possedevano un giurista d’impresa. Ora, data l’aumentata “quantità” e complessità del diritto e della regolazione, è impensabile che una società di una qualche dimensione non abbia un legale interno.  Credo che il fenomeno sia in genere positivo e porti a maggiore legalità nella gestione delle imprese. Può essere una carriera molto soddisfacente e, in certi casi, persino più appagante della professione come legale esterno.

 

Quindi quale è la sostanziale differenza?

Il giurista d’impresa ha il grande vantaggio di essere molto inserito nella struttura aziendale e comprende meglio la sua azienda, avendo una conoscenza più intima delle sue attività e problematicità, delle procedure e delle dinamiche interne, rispetto all’avvocato esterno. Infatti, molti giuristi d’impresa poi evolvono in ruoli manageriali. Però, nei momenti di alta tensione strategica, di grandi acquisizioni o di significativi contenziosi, è senz’altro conveniente rivolgersi ad un avvocato esterno che, avendo in genere esperienza di più clientela e situazioni diverse, può offrire un supporto più tecnico e di esperienza. Inoltre, la sua indipendenza è assai spesso un grande e decisivo valore, soprattutto in situazioni complesse.   Ma entrambi i ruoli sono importanti e sinergici.

 

E’ vero che oggi piuttosto che l’avvocato d’affari, il tributarista, il civilista, il penalista o l’amministrativista, gli avvocati si concentrano più su problemi relativi a contestazioni delle cartelle esattoriali, tasse, contrattualistica, societario, tutela dei minori,  reati informatici, appalti pubblici, ecc

Noi avvocati italiani siamo tutti diversi. Ci sono molti avvocati tradizionalisti con uno studio con due e tre avvocati. Avere piccoli studi non significa essere meno bravi o importanti: ci sono ottimi professionisti. All’altro estremo vi sono grandi studi associati dove ogni avvocato ha una sua specializzazione. Negli ultimi anni si è registrata una tendenza verso le specializzazioni perché il diritto cresce e diventa più complesso. Una volta si riusciva a spaziare più agevolmente, ma oggi è troppo complesso farlo con competenza, in quanto sono troppi gli ambiti e troppi gli sviluppi.

 

Quindi oggi qual è la tendenza?

C’è indubbiamente, come detto, una tendenza verso la specializzazione, ma sono poi le circostanze della vita che spesso determinano le aree di attività di un avvocato.  Ad esempio, se un avvocato abita in una piccola città deve anche andare incontro alle molteplici esigenze dei vari clienti e non può limitarsi ad occuparsi di un solo campo. Nelle grandi città, dove sono i grandi studi, si possono fare scelte più individuali.

 

Lei è iscritto all’Ordine degli avvocati in Italia e all’Ordine avvocati di New York. Lei che ha iniziato la sua carriera a Wall Street  quali sono le principali differenze tra America e Italia nel modus operandi nell’ambito forense?

In realtà io mi sono laureato nel 1970, avevo 22 anni e ho fatto tutta la mia pratica forense con il professor Mario Casella, che era considerato tra i primissimi nell’ambito forense in Italia. Ho fatto pratica nel suo studio per circa 3 anni e poi sono andato a studiare in America. Ho preso là un’altra laurea di diritto, mi sono iscritto all’albo degli avvocati di New York e ho cominciato a lavorare in uno dei migliori studi di avvocati di Wall Street che aveva al tempo circa 240 avvocati. Se lei considera che a quei tempi, negli anni ’70, in Italia vi erano studi di una dozzina di avvocati al massimo, era per me incredibile trovare studi americani così grandi. E questo è un modello che è stato esportato anche in Italia. Una differenza che permane è che gli studi legali in America sono più istituzionalizzati che in Italia, con regole di avanzamento di carriera e divisione degli utili più chiare e affidabili. Molti studi italiani sono ancora largamente padronali, vuoi per ragioni familiari, vuoi perché risentono della presenza dei fondatori.

 

Lei ha una vasta esperienza in fusioni e acquisizioni pubbliche e private italiane e transfrontaliere.  È inoltre attivo in arbitrati internazionali, sia come difensore che come arbitro e assiste regolarmente banche e privati ​​facoltosi in operazioni di acquisizione, acquisizione e dismissione. Quale ambito la appassiona di più?

Io ho una grande passione per il contenzioso, perché mi piace perorare, cercare di convincere, e vincere.  Il tutto ovviamente nell’ambito delle regole del gioco: è un po’ come uno sport, e va fatto con lealtà. L’altra passione, che del resto ho coltivato di più del contenzioso, è l’M&A tradizionale, per imprese, assicurazioni e banche che abbiano strategie a medio e lungo termine. La trattativa e la redazione dei contratti di M&A sono aspetti che coinvolgono e richiedono abilità tecnica e dialettica nonché talora creatività e competenze anche psicologiche.

 

I suoi clienti dichiarano che lei è “brillante, di grande esperienza e un pensatore fuori dagli schemi”. Questo è tutto ciò che un avvocato di successo deve possedere?

Anni fa pubblicai un contributo ad un libro collettaneo pubblicato da un’associazione di giovani avvocati dove spiegavo la qualità fondamentale che un bravo avvocato deve possedere: un bravo avvocato deve possedere la diligenza. Perché questa è la vera forza di un avvocato. In un confronto tra un avvocato brillante ma non diligente e uno non altrettanto brillante ma più diligente vincerà sempre il secondo. La professione di avvocato richiede una grandissima dose di diligenza; poi, se uno è anche brillante, allora sarà tra i primi.

 

E poi?

Studiare e lavorare molto. Perché non si finisce mai di apprendere sia dai libri che dai precedenti e dalle esperienze professionali. La nostra professione è governata da un processo di accrescimento, dove il sapere e l’esperienza si alimentano a vicenda. Ripeto spesso che l’obiettivo di crescita di un avvocato è passare dal dare “risposte” al dare “consigli”, in quanto questi ultimi poggiano necessariamente non solo sul sapere ma anche sull’esperienza e la maturità professionale.  Sono processi lunghi, che richiedono anche pazienza e umiltà.  Vorrei anche aggiungere che credo molto nella funzione sociale dell’avvocato e penso pertanto che la nostra professionale richieda una piena consapevolezza di tale funzione. E credo anche che il profilo economico non debba ossessionare l’avvocato, pena compromessi con la diligenza ed i propri doveri professionali.

 

Lei è da molti anni membro del Consiglio Italia-USA, organizzazione bilaterale di alto livello, è membro dell’Advisory Board dell’Istituto Europeo della Columbia University e ha una lunga affiliazione con la Comunità di San Patrignano, svolgendo attività pro-bono essendo stato membro del consiglio di amministrazione della Fondazione. Cosa accomuna tutte queste grandi competenze?

Sono stato per molti anni membro del Consiglio Italia-Usa, che è stato fondato da Gianni Agnelli e Rockefeller e ne sono uscito dopo la morte di Sergio Marchionne, che ne era alla presidenza. Era ed è un’associazione di alto profilo con personaggi di grande qualità. Ma, come si sa, l’intensità dei rapporti Italia – Stati Uniti è decresciuta negli ultimi decenni, e quindi, poiché il tempo che ognuno di noi ha a disposizione fuori dalla professione non è purtroppo infinito, ho dovuto fare la difficile scelta di dimettermi.  Per il resto, cosa accomuna tutte queste grandi attività? La mia continua curiosità e il piacere di conoscere e frequentare persone che, anche a causa della loro diversità, mi arricchiscono umanamente e professionalmente.

 

Prima di entrare a far parte di Linklaters nel 2018, lei è stato partner di Cleary Gottlieb Steen & Hamilton.  In precedenza è stato Italian Senior Partner di Allen & Overy e uno dei tre responsabili della Global Corporate Practice di Allen & Overy, mentre dal 1981 al 1998 è stato co-fondatore e socio di Brosio, Casati e Associati. Ogni volta che ha cambiato studio cosa è cambiato nel suo modo di operare?

Io ho cambiato studio ogni volta che ho ritenuto di non poter più essere pienamente me stesso. Ho cambiato quando gli obiettivi strategici o lo stile professionale dello studio in cui lavoravo non erano più in linea con il mio modo di operare. Ma io sono sempre rimasto identico, con i miei valori, il mio modo di essere, di operare, con obiettivi a lungo termine e con lo scopo di ottenere risultati di eccellenza.

 

Tra le sue grandi operazioni ricordiamo l’assistenza a Generali in relazione al tentativo di scalata da parte di Intesa SanPaolo, a quella a RCS Mediagroup durante la corsa alla conquista del gruppo editoriale da parte di Cairo Communications e del consorzio concorrente guidato da Andrea Bonomi. E poi, ancora, si possono ricordare l’assistenza all’Internazionale Holding di Massimo Moratti nella cessione del 70% dell’Inter alla cordata indonesiana (International Sports Capital) capeggiata da Erick Thohir così come quella fornita alla multinazionale Whirlpool Corporation nell’acquisizione di Indesit. Quali sono  altre importanti operazioni che lei ha condotto?

Diciamo che inizialmente l’operazione che negli anni ’80 mi ha permesso di farmi conoscere in Italia nel settore dell’M&A fu l’assistenza a Chrysler nell’operazione Maserati e l’acquisto della Lamborghini. Poi mi occupai di grandi operazioni relative alle compagnie telefoniche, le privatizzazioni negli anni ’90. Da lì poi vinsi anche una serie di grandi arbitrati. L’operazione più complessa, ma allo stesso tempo più stimolante, è stata forse quella relativa all’assistenza vittoriosa ad ABN-AMRO in relazione all’OPA sulla Banca Antonveneta, che durò parecchio tempo e fece molto scalpore, anche per i personaggi coinvolti. Più recentemente mi sono occupato dell’operazione della PerfettiVanMelle relativa ad un significativo acquisto nel settore chewing-gum negli Stati Uniti ed in Europa. Attualmente mi sto occupando di un paio di altre grandi operazioni, delle quali però ancora non posso parlare.

 

Quale settore consiglia oggi ad un giovane laureato in Giurisprudenza?

Occorre comprendere che sono in corso nel mondo occidentale sviluppi politici e tecnologici drammatici che, a medio-lungo termine, cambieranno molto il quadro democratico di riferimento; e cambierà anche il modo in cui il diritto viene prodotto e amministrato, nonché la sua natura. E quindi a lungo andare la nostra professione di avvocato sarà sempre più standardizzata e di processo, e meno libera e creativa. Quindi non vi è una risposta univoca. Se uno non è insofferente delle procedure e dei processi e si adegua a qualunque settore, non ci sarà problema. In caso contrario, io consiglio il contenzioso, in quanto sarà il settore meno standardizzabile nel medio termine. In entrambi i casi, chi non sarà all’altezza tecnologicamente sarà un perdente. Infine, il mio consiglio è di fare un grande bagno di internazionalità, per aprire i propri orizzonti e per capire come si lavora e si opera con gli altri sistemi giuridici e tecnologici nel mondo.

 

 

 

Tag: , , ,