Il cervello di Trump
BRAINWASHING
Nel 1967, il governatore del Michigan George Romney era considerato uno dei potenziali candidati repubblicani alla presidenza; l’America stava provando ad uscire dallo choc per l’assassinio di J.F.Kennedy (ci sarebbe rientrata un anno dopo con l’omicidio di suo fratello Bob) e Lyndon Johnson, il vicepresidente che ne aveva preso il posto, maturava la decisione di non candidarsi di fronte al disastro del Vietnam che lui aveva prodotto.
I repubblicani vedevano così la possibilità di riconquistare la Casa Bianca e la candidatura del mormone Romney (padre del Mitt che poi sfiderà Obama nel 2012) appariva per certi versi favorita anche rispetto a quella di Richard Nixon. Ma la sua corsa alle presidenziali terminò prima ancora di iniziare dopo che fece una delle più clamorose gaffe nella storia della politica americana: durante un’intervista televisiva, per giustificare il suo cambiamento di opinione sulla guerra in Vietnam (da favorevole a contrario), affermò che il suo appoggio precedente era stato la conseguenza di “un efficace lavaggio del cervello” che lui stesso aveva subìto “dai militari e dal corpo diplomatico”.
Per gli americani l’immagine di un Presidente manipolabile nelle sue convinzioni e quindi non indipendente nelle decisioni, era inaccettabile e il Gop lo scaricò per Nixon.
D’altronde in quegli anni di piena Guerra Fredda, l’immaginario simbolico degli americani era stato scosso da uno dei film più complottisti della storia di Hollywood: The Manchurian Candidate, la storia del “lavaggio del cervello” che i comunisti sovietici avevano fatto ad un gruppo di soldati americani catturati in Corea, per uccidere proprio un candidato presidente degli Stati Uniti.
Il tema della manipolazione è una costante della politica americana; un presidente Usa dev’essere decisionista, determinato, ma sopratutto in grado di difendere gli interessi nazionali con autonomia di giudizio e libertà di pensiero; il “brainwashing” è più grave della corruzione perché implica una corruzione ancora più profonda capace di mettere in pericolo la nazione.
TRUMP È IL MANCHURIAN CANDIDATE?
Oggi, una delle accuse che l’establishment di Washington rivolge Donald Trump è proprio quello di essere un “candidato dormiente”, un “Manchurian Candidate” strumentale a potenze straniere che vogliono distruggere l’America.
L’accusa, in realtà è nata più come battuta che altro: nel settembre del 2015, all’interno dello show televisivo di Bill Maher, Salman Rushdie scherzò sul fatto che Trump fosse il Manchurian Candidate di Hillary, infiltrato dai Clinton per distruggere il partito repubblicano. Ma allora Trump era appena sceso in campo, era un semplice ed improbabile outsider dei conservatori e oggetto di derisione da parte dei soliti intelligentoni della sinistra radical-chic che, in America come in Italia, fanno a gara a dimostrare quanto non capiscano nulla di ciò che avviene fuori dai loro salottini.
Ma ora che Trump si gioca veramente la partita per diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti, l’accusa di essere una pedina controllata dall’esterno dell’America, si fa seria.
Nel Luglio scorso sul Washington Post, è stata Anne Applebaum, intellettuale polacco-americana di scuola neo-con, ad affermare che dietro Trump c’è l’immancabile Russia di Putin (con tutto il corollario di scemenze complottiste non dimostrate). E più volte, funzionari Usa, ex agenti Cia ed esperti da mainstream hanno paventato il pericolo Trump come un rischio per la sicurezza nazionale.
TRUMP VS NEO-CON E LIBERAL
In realtà Trump spaventa l’America del potere non per le sue idee su immigrazione o Islam, per le sue ricette economiche, ma per le sue posizioni in politica estera, lontane anni luce dalle isterie guerrafondaie degli ultimi 20 anni dei neo-con e dei liberal alla Clinton.
Trump ha ricordato che la guerra in Iraq fu generata da una bugia (quella sulle armi chimiche, cosa ormai ufficializzata) e quell’invasione “la peggiore decisione” per l’America; che l’intervento in Libia è stato sbagliato, che la Russia di Putin non è necessariamente un nemico degli Usa, che la Nato è un’alleanza obsoleta e che gli Stati Uniti non possono più permettersi di sostenere la spese per proteggere e difendere alleati ricchi come Arabia Saudita e Giappone.
Tutto questo suona come eresia alle orecchie di chi, in questi anni, ha prosperato sull’imbroglio delle “guerre umanitarie”, della lotta al terrorismo che produce più terrorismo (come abbiamo dimostrato qui) e sull’idea che l’America sia il gendarme del mondo e che debba mantenere, costi quel che costi, il suo ruolo globale.
Per questo, nel marzo scorso, alcuni dei più influenti intellettuali neo-con hanno pubblicato una lettera aperta in cui hanno preso le distanze da Donald Trump; ed alcuni di loro, come per esempio Robert Kagan, teorico della guerra globale americana (e marito di quella Victoria Nuland artefice, per conto di Obama, della crisi in Ucraina e dello scontro con la Russia) sono passati armi e bagagli con la Clinton e i democratici; paradosso di chi accusa Trump di essere strumento di potenze straniere e poi sceglie una candidata che riceve milioni di dollari di finanziamento da governi tirannici stranieri.
IL REALISMO DI TRUMP
In realtà Donald Trump non vuole ridimensionare l’America ma ridisegnare il suo ruolo in un mondo multipolare. Le sue posizioni in politica estera riprendono la tradizione del grande realismo conservatore americano: è consapevole del disastro compiuto in questi anni in Medio Oriente e del fatto che l’America non è più la superpotenza economica capace di sostenere da sola l’ordine del mondo; e con il mondo bisogna fare i conti. In realtà colui che viene dipinto come un candidato spericolato, è il più attento alle complessità dello scenario internazionale e della reale situazione in cui versano gli Stati Uniti (e qualcuno inizia a riconoscerlo).
Barack Obama aveva affascinato la comunità internazionale con la sua visione di un mondo multipolare che avrebbe ridato all’America il ruolo di guida morale e non più di gendarme del mondo. Poi, una volta eletto e incassato il Nobel per la Pace sulla fiducia, è diventato il presidente più guerrafondaio della storia: ha aumentato l’impegno militare Usa, moltiplicato le guerre umanitarie, finanziato le destabilizzazioni internazionali (dalla Primavera Araba all’Ucraina), trasformato definitivamente la Nato nello strumento di espansione americana in Europa, riempito Africa e Asia di basi segrete da cui far partire i micidiali droni per i bombardamenti sicuri, approvato i piani della “guerra invisibile” del Pentagono disseminando di reparti speciali e contractor addestrati dalla Cia decine di paesi del mondo dove si svolgono conflitti.
Trump, almeno a parole, intende fare esattamente il contrario. Il candidato presidente più inverosimile della storia americana sembra avere, almeno in politica estera, idee molto chiare; per questo nel primo dibattito televisivo con la Clinton, si è fatto in modo che questi argomenti non venissero quasi toccati.
Contro Trump c’è l’intero sistema di potere americano, non solo la sua diretta rivale politica: lo combattono Wall Street e Goldman Sachs, la Cia e una parte del Pentagono, il mainstream e gli ambienti diplomatici, il circo degli intellettuali influenti e Hollywood. In una democrazia in cui vota poco più della metà dei cittadini, tutto questo conta.
Ma il cervello di Trump non è manipolato, tutt’altro. Funziona assai bene; ed è questo che i suoi avversari non possono accettare.
Su Twitter: @GiampaoloRossi
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