Il balletto delle leggi elettorali
Ormai ci siamo abituati alle sparate di Matteo Renzi, ma l’ultima ha destato forse più sconcerto delle altre: secondo il nostro premier, il tanto contestato Italicum, cioè la nuova legge elettorale che è riuscito a imporre faticosamente ad amici e avversari, ci sarà presto copiata da mezza Europa, Germania compresa. Se si avverasse, sarebbe davvero un fatto sensazionale, ma prima di misurarne la probabilità bisogna chiarire alcuni punti chiave.
Primo punto, non esiste la legge elettorale ideale, ma solo quella che, in un certo momento, conviene di più a una maggioranza in grado di farla approvare. Semplificando, si può dire che le leggi elettorali si dividono in due categorie: quelle che privilegiano la rappresentatività, come la proporzionale pura, e quelle che privilegiano la governabilità, come quelle che prevedono premi di maggioranza o, attraverso vari espedienti, tendono comunque a escludere dal Parlamento i cosiddetti cespugli. In due categorie si dividono anche i Paesi: da una parte, quelli che non cambiano mai la propria legge, qualunque siano le condizioni politiche – Gran Bretagna e Stati Uniti in testa – e quelle che invece le manipolano a seconda delle situazioni, in maniera talvolta anche abbastanza arbitraria: di questo secondo gruppo non facciamo parte soltanto noi, ma anche la Francia che, a suo tempo, cambiò le carte in tavola con il preciso intento di tenere l’estrema destra, che si chiamasse Poujade o Le Pen, fuori dall’Assemblea nazionale. Ci è riuscita così bene, che anciora oggi che il Fronte Nazionale è votato dal 26% degli elettori, i suoi deputati sono….soltanto due.
I Paesi anglosassoni hanno inventato, e in gran parte mantenuto, il sistema del collegio uninominale (parzialmente adottato da noi, per un certo periodo, con il Mattarellum). Ogni collegio manda in Parlamento il deputato che ha ottenuto più voti, anche se sono solo il 30%. Funziona bene dove ci sono solo due partiti, anche se talvolta accade che quello vincente prenda, a livello nazionale, meno voti di quello perdente, ma zoppica e dà luogo a palesi ingiustizie quando sulla scena si presentano altre formazioni politiche. In Gran Bretagna, per esempio, ha penalizzato a lungo il partito liberale, che otteneva un numero di deputati molto inferiore ai suoi consensi, e adesso penalizza l’UKIP, il partito nazionalista antieuropeo di destra che pur avendo vinto le “europee”(dove anche nel Regno Unito si vota con il proporzionale) ha, almeno per ora, alla Camera dei Comuni un solo rappresentante. Già nell’ultima legislstura, comunque, nessuno dei partiti tradizionali, conservatori e laburisti, ha ottenuto la maggioranza assoluta necessaria per governare, per cui per la prima volta dalla seconda guerra mondiale si è dovuto ricorrere a un governo di coalizione. Che cosa succederà al prossimo turno, con il lizza un UKIP in ascesa e un Partito nazionale scozzese che sottrarrà molti seggi ai laburisti, è un mistero. E forse Londra dovrà seguire l’esempio della Nuova Zelanda che quindici anni fa, primo dei Paesi anglosassoni, abbandonò l’uninominale per una forma di proporzionale per fare posto a un terzo partito che rappresentasse gli interessi degli indigeni Maori.
All’estremo opposto troviamo Israele, dove si vota con la proporzionale pura e a collegio unico (il Paese è relativamente piccolo). Il risultato, bizzarro ma non troppo, è che c’è una pletora di partiti come nella nostra Prima repubblica, ma che alla poltrona di primo ministro non arriva automaticamente il leader del partito più votato, ma quello che riesce a mettere insieme una coalizione, spesso abbastanza eterogenea che abbia più del 50% di voti alla Knesset.
Una via di mezzo, sicuramente molto democratica, ma quanto mai complicata, è quella tedesca, con il ricorso al doppio voto e la divisione tra deputati eletti direttamente e con la proporzionale. Per molti anni, nel dopoguerra, il risultato è stato che il partito liberale (FDP), che non è mai arrivato al 10% dei voti, finiva con il decidere le sorti del Paese, scegliendo di allearsi ora con la CDU/CDU, ora con la SPD. Adesso che sulla scena sono comparsi altri attori, i Verdi, la Linke, ultimi gli euroscettici di Alternativa per la Germania, le cose si sono molto complicate. Se ci fosse stata una legge elettorale, che privilegia la governabilità sulla rappresentatività, Angela Merkel non avrebbe avuto bisogno di governare, per due volte su tre, in alleanza con i socialdemocratici, suoi avversari naturali. Forse per questo, Renzi pensa che alla signora non dispiacerebbe un Italicum in salsa teutonica.
La nostra nuova legge, infatti, porta alle estreme conseguenze il principio di governabilità, prevedendo non solo un sostanzioso premio di maggioranza al partito che vince con più del 40%, ma addirittura un ballottaggio fra i due partiti più votati in modo che qualcuno abbia comunque la maggioranza. Diciamo pure che è una legge – oggi come – oggi – fatta su misura per Renzi, come a suo tempo la riforma francese fu fatta a uso e consumo di Mitterrand. E’ un sistema sicuramente più efficiente, ma che inevitabilmente dà spazio, nel Paese, alla maggioranza di cittadini che si sentono esclusi.
Un’altra differenza tra i vari sistemi consiste nella modalità di scelta dei candidati. In Gran Bretagna, i direttivi locali dei vari partiti si scelgono i loro candidati, escludendo il centro: in apparenza un sistema molto democratico, ma sostanzialmente elitario. Meglio allora le primarie, ora tanto in voga almeno nel PD? In teoria sì, ma con la riserva che ridà potere ai cosiddetti signori delle tessere e ai gruppi di potere, che a suo tempo rese tanto impopolare i voti di preferenza da portare addirittura un referendum per la loro abolizione. Negli Stati Uniti, dove le primarie per la scelta dei candidati sia al Congresso, sia al Senato, sono addirittura obbligatorie, spesso producono lotte fratricide in cui vince, di solito, chi ha più soldi per comprare spazio in TV.
Il fatto stesso che esistano tante leggi diverse dimostra che la scelta, oltre che dovuta a ragioni storiche è sempre “partigiana”, e una funzionale oggi può non esserlo più domani. Ma c’è un limite nella opportunità di cambiare le regole del gioco, e noi lo stiamo già sfiorando.