Iran: accordo buono o accordo bidone?
Dopo dieci anni di negoziati infruttuosi e due giorni di ritardo sulla scadenza prefissata, si è finalmente raggiunto un accordo per cercare di fermare quella corsa (sempre negata dagli interessati) dell’Iran verso la bomba atomica, che avrebbe cambiato radicalmente gli euilibri geopolitici del Medio Oriente. Ma si tratta davvero. come sostiene Obama, di un accordo storico, che ci garantisce per almeno dieci anni che Teheran, se an che volesse barare al gioco, impiegherebbe almeno un anno per fabbricare il suo primo ordigno nucleare, o piuttosto .un accordo bidone, come sostengono gli israeliani e i sauditi, che regala all’Iran l’agognata abolizione delle sanzioni senza fornirci garanzie sufficienti? Per rispondere con certezza, bisognerà attendere che nei prossimi mesi l’accordo-quadro raggiunto giovedì sera sia completato da una infinità di protocolli tecnici, su cui per ora ci sono ancora dissensi profondi. Solo se, entro la data limite del 30 giugno, queste lacune verranno riempite con soddisfazione potremo dire che l0Occidente ha ottenuto una vittoria. Per adesso, sul fronte positivo, c’è l’impegni iraniano a chiudere tutti i suoi impianti per arricchire l’uranio con l’eccezione di Natanz, la trasformazione del reattore ad acqua pesante di Arak in modo che non possa più produrre plutonio “militare”, la riduzione delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio a seimila e soprattutto la promessa dell’apertura di tutte le installazioni alle ispezioni dell’AIEA. Sul fronte negativo, bisogna annoverare il mantenimento del diritto dell’Iran ad arricchire uranio e soprattutto l’impegno a una abolizione delle sanzioni troppo frettolosa ed imprudente, tenuto conto che gli ayatollah ci hanno già ingannato più volte in passato e possono farlo ancora. Inoltre, non sappiamo ancora che cosa si nasconda dietro l’ammissione del Segretario di Stato Kerry che molti problemi rimangonio da risolvere.
Obama, naturalmente, si è affrettato a salutare l’accordo come un grande successo: un riavvicinamento all’Iran e una soluzione pacifica del problema della bomba sono stati fin dal principio del suo mandato tra i suoi principali obbiettivi, tanto che gli rivolse perfino un appello in Farsi. Per arrivarci, ha ignorato le (più che giustificate) obiezioni degli alleati e, visto che alla scadenza del 31 marzo non si era ancora arrivati a un’intesa, ordinato di prolungare il negoziato a oltranza legandosi così implicitamente le mani. Tuttavia, solo la storia dirà se davvero – come sostiene – ha reso un servizio al mondo, o ha compiuto l’ennesimo errore di una politica mediorientale fin qui disastrosa.
A rendere il negoziato così difficile è stato principalmente il diverso approccio delle parti. Da un lato, gli Stati Uniti (e i suoi alleati occidentali) hanno puntato da sempre a mettere nero su bianco impegni precisi, con il numero delle centrifughe che l’Iran sarà autorizzato a operare, l’elenco dei siti nucleari che potrà mantenere, la quantità di uranio arricchito che dovrà spedire “in deposito” in Russia e molti altri dettagli tecnici traducibili in numeri. Nonostante la ferma volontà di Obama di arrivare al traguardo, il segretario di Stato Kerry, principale attore della trattativa, aveva infatti bisogno di un accordo che soddisfacesse anche il Congresso repubblicano, non fosse troppo inviso ad Israele e ai Paesi sunniti e fornisse sufficienti garanzie che gli iraniani – come hanno fatto molte volte in passato – non potessero più barare al gioco.
Dall’altro lato i rappresentanti di Teheran erano soprattutto preoccupati di mantenere intatta la immagine della Repubblica islamica comePaese sovrano, impermeabile ai ricatti del “Grande Satana”, e perciò sono stati da sempre restii a mettere la firma sotto qualsiasi documento che limitasse visibilmente la loro libertà di azione. Inoltre, il capo delegazione Zarif, considerato a Teheran un liberale, doveva tenere conto dei veti che, di tanto in tanto il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, opponeva a specifiche richieste occidentali, e spesso si trincerava dietro la impossibilità di fare accettare certe condizioni all’ala dura del regime. Un altro capitolo su cui l’Iran si è impuntato, in questo caso per ragioni pratiche, è stato il calendario dell’abrogazione delle sanzioni, che hanno ridotto in ginocchio la sua economia: via subito quelle riguardanti finanza e petrolio, e in tempi rapidi tutte le altre. Una condizione che gli occidentali erano riluttanti ad accettare, perché esse costituiscono l’elemento che ha costretto Teheran al tavolo dei negoziati e ancora oggi rimangono l’unica efficace arma di pressione per obbligare gli ayatollah a rispettare gli impegni assunti. Un acuto osservatore ha riassunto così le difficoltà incontrate in tanti anni di trattative con le varie delegazioni iraniane che si sono succedute intorno al tavolo: “Gli uomini più potenti non erano accessibili e quelli più accessibili non erano potenti”.
Bisogna aggiungere che prima ancora della sua conclusione, il negoziato di Ginevra ha prodotto effetti profondi sugli equilibri del Medio Oriente. Nella convinzione che gli americani non sarebbero comunque riusciti a bloccare al 100% la corsa dell’Iran alla bomba, ma solo a ritardarla, l’Arabia Saudita ha gradualmente allentato i suoi legami con Washington, ha messo insieme in tempi da primato una specie di NATO sunnita, con la partecipazione dei 10 principali Paesi della regione e ha avviato negoziati segreti con il Pakistan per acquistare – se necessario – un suo deterrente nucleare. Parallelamente, Israele si è opposta fino alla fine a qualsiasi intesa, forte del fatto che, ancora martedì, un generale delle Guardie rivoluzionarie ha dichiarato che “l’impegno iraniano a distruggere lo Stato ebraico non è negoziabile”; e a Gerusalemme si è preso atto con soddisfazione che, se a Obama succederà un presidente repubblicano, Washington potrebbe chiedere una revisione di tutto quanto viene stabilito in questi giorni.