Una vita dedicata ai ragazzi quella di Don Gino Rigoldi, entrato in seminario a diciotto anni ma a tredici già operaio  in una piccola azienda di apparecchiature elettriche. Cappellano dell’Istituto penale per minorenni Cesare Beccaria di Milano dal 1972, inizia immediatamente ad ospitare ed aiutare giovani sbandati, tossicodipendenti, figli di immigrati persi nella metropoli, o semplicemente abbandonati a se stessi.  Coinvolgendo  i servizi sociali  e un gruppo di volontari nacquero a Milano le prime comunità-alloggio  e nel 1973 Comunità Nuova, oggi una onlus  di cui Don Gino è presidente. 

 

Don Gino, sono trascorsi più di quarant’anni da quando è iniziato il suo impegno. Cosa la spinse all’inizio e cosa è diventato oggi?

La spinta è stata molto semplice: ho incrociato un ragazzo che usciva dal carcere senza avere una casa dove andare. Mi è sembrato naturale, avendo io una casa proprio al Beccaria, con due stanze, dirgli di venire da me. E così feci nei giorni successivi:  da lì a poco gli ospiti diventarono numerosi. Così capii che avrei dovuto coinvolgere altre persone e in breve i volontari diventarono sette. Dopo un po’ ci trasferimmo in una casa più grande. L’idea era di fare gruppo, perché un leader non va da nessuna parte senza un gruppo. Poi ci chiedemmo da dove venissero i ragazzi che finivano al Beccaria, così guardando alle periferie ci siamo resi conto che mancavano i luoghi di aggregazione. Aprimmo a Baggio “La Locanda”, una sorta di centro sociale, diventato presto il maggior distributore di Albana, un ottimo  vino bianco. Certe sere arrivavano fino a 300 ragazzi. Dopo un po’, purtroppo, cominciammo a vedere ragazzi mezzi addormentati o iper eccitati: stava arrivando l’eroina, l’anfetamina e gli allucinogeni. Siamo così andati da chi aveva già cominciato ad affrontare il problema: don Ciotti a Torino. Così aprimmo la prima comunità per la cura delle tossicodipendenze. Oggi sono ancora il cappellano del carcere Beccaria. Con le associazioni Comunità Nuova e BIR e con la Fondazione Don Gino Rigoldi continuiamo a occuparci di minori, delle loro famiglie, dei bisogni delle giovani generazioni. Oggi la mia preoccupazione principale è rispondere alla necessità di formazione, lavoro e casa, così urgente per i giovani delle periferie.

 

Come sono cambiate le dinamiche all’interno della comunità dopo l’arrivo della pandemia un anno fa?

Le comunità sono diverse: a casa mia, con il gruppo di ragazzi, la gestione è stata come quella di tutte le famiglie. Nella comunità di bimbi in affido e nella comunità per tossicodipendenti abbiamo dovuto moltiplicare gli sforzi, in quanto le visite con i familiari hanno dovuto trasferirsi sui computer. Al Beccaria, a suo modo una comunità, l’isolamento si è intensificato e i ragazzi hanno molto sofferto la sospensione dei colloqui.

 

Come definirebbe i ragazzi di cui vi occupate: devianti, diversi o semplicemente gli ultimi e i più sfortunati?

Mediamente sono gli ultimi, i più sfortunati. In carcere troviamo ragazzi con una provenienza sociale di grande povertà. Raramente entrano minori provenienti da una famiglia strutturata e benestante. In generale i ragazzi e le ragazze di cui ci occupiamo partono da condizioni svantaggiate rispetto a chi ha una condizione sociale ed economica favorevole.

 

Come è cambiata l’emarginazione minorile da quando ha iniziato a occuparsene ad oggi?

Fino agli anni novanta erano figli di migranti del sud Italia, arrivati con la famiglia a cercare lavoro con i sogni del consumismo: la macchina, gli oggetti status symbol del successo, con poche preoccupazioni del futuro. In quanto il futuro era lì, pronto per essere afferrato.
Oggi, ci sono molti più stranieri, senza famiglia o con una famiglia disgregata, senza fiducia nel futuro. Con loro dobbiamo rilanciare l’autostima, la convinzione che anche loro valgono, che anche loro possono costruire una buona vita. Dobbiamo rassicurarli.

 

Qual è l’idea di recupero che la orienta?

Alla radice c’è la convinzione che l’educazione è un addestramento a stare con gli altri e l’opinione che gli altri possano essere alleati. L’educazione è sostanzialmente relazione, che è anche il centro della vita umana.

 

Lei ha fatto parte di numerose commissioni regionali e comunali su minori e tossicodipendenze. Come operano le istituzioni locali in materia?

A proposito di commissioni ho persino rappresentato la Santa Sede a Bruxelles. Sono stato presidente della commissione regionale, voluta dall’Assessorato alla Sanità, per costruire i servizi per le tossicodipendenze. Inventammo i NOT (Nuclei Operativi per le Tossicodipendenze). Posso dire che le istituzioni hanno il valore di chi le dirige e di chi vi opera all’interno. Lasciano il tempo che trovano, di solito, le commissioni esplorative dove si raccolgono buoni propositi ma nessuna azione concreta. Quando un operatore viene invitato in una commissione, invece di esserne semplicemente onorato a parteciparvi, deve chiedere concretezza e tempi di realizzazione definiti e realistici.

 

Quale è la prima causa della tossicodipendenza?

Non credo si possa parlare di una causa iniziale valida per tutti. Gli adolescenti hanno bisogno di saggiare tutto l’esistente, sono curiosi e sfidanti dei pericoli e dei divieti. Funziona anche l’imitazione di personaggi famosi, o meno, ma di riferimento.
Bisogna capire che le droghe forniscono gli effetti ricercati, che sono il rilassamento o l’eccitazione. Questo vale per le droghe ma anche per l’alcol e per gli psicofarmaci, quando usati senza indicazione medica. La ricerca di questi effetti esprime un vuoto che forse è la prima causa, ma assume significati diversi a seconda della persona. Tutto questo avviene a causa della debolezza degli adulti: se la lotta allo spaccio deve essere fatta dalla polizia e dai tribunali, il consumo si affronta con l’impegno educativo, a partire dalla scuola e dalla famiglia.

 

Le zone più a rischio sono le periferie?

Forse questo si poteva credere una volta. Oggi non possiamo ragionare per localizzazione geografica: ci sono droghe per lo sballo e ci sono droghe per aumentare le prestazioni, la performance… Centro e periferie sono coinvolte nello stesso modo. Ma se pensiamo al degrado generato dal consumo di sostanze, allora sembra più evidente nelle fasce più fragili, che di solito abitano in periferia.

 

Cosa potrebbe fare Milano per i suoi giovani?

Occuparsi dei giovani dove vivono: la scuola, prima di tutto, dove la prima competenza degli insegnanti deve essere la grande competenza relazionale, capaci di costruire il gruppo- classe come luogo di relazione. Il nodo critico sono gli insegnanti, non i ragazzi. Poi ci sono gli oratori, le società sportive, le piazze e i luoghi di divertimento, dove facilmente le figure di spicco non devono essere gli spacciatori ma gli sportivi, gli educatori, i musicisti, gli artisti. Se esiste una povertà educativa nelle famiglie, una città deve riuscire a promuovere tutte le figure che rivestono un ruolo educativo.

 

grimaldiveronica8@gmail.com

 

 

 

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