Marco Risi: il cinema sopravvivrà alla pandemia
Marco Risi, regista, sceneggiatore e scrittore, classe 1951, nato a Milano ma residente a Roma, figlio del grande Dino, icona della Commedia all’italiana. Il suo ultimo libro “Forte respiro rapido”, edito da Mondadori, racconta il rapporto con il padre attraverso aneddoti con i grandi del cinema e vita privata. Marco Risi, dopo film importanti come “Mary per sempre”, “Il muro di gomma”, “Fortapàsc”, uscirà con un nuovo film dal titolo “Il punto di rugiada” e, assicura, sarà una sorpresa. Ma ci parla anche della crisi dell’industria del cinema e delle conseguenze della pandemia in questo settore.
A distanza di un anno dallo scoppio della pandemia e delle sue conseguenze nei vari ambiti, come vede il futuro dell’industria del cinema?
Il cinema sopravvivrà. Vedere il cinema nelle sale, purtroppo, no. Soltanto alcuni block-buster ultramilionari usufruiranno di schermi di duecentocinquanta metri quadri e avranno il privilegio di farsi vedere nei circuiti cinematografici. Sempre di più ci abitueremo a vedere i film in televisione e i televisori saranno con schermi sempre più grandi. Saremo sempre più soli, isolati, rabbiosi ed egoisti ma continueremo a vedere cinema.
Sicuramente la chiusura delle sale cinematografiche ha incrementato la fruizione del cinema attraverso le varie piattaforme di streaming. Cosa ne pensa di queste piattaforme e come vede il futuro degli esercenti?
Gli esercenti la botta finale ce l’hanno avuta con il Covid. Già prima non se la passavano benissimo ma i segnali di quello cui ho appena accennato si cominciavano a intravedere da qualche anno. Le sale erano diventate cimiteri per elefanti. Solo i vecchi continuavano a ostinarsi a frequentarle con una certa assiduità. I veri trionfatori di questa situazione sono: Netflix, Amazon, Sky, ed altri se ne aggiungeranno. Anzi, credo che il Covid l’abbiano inventato loro… si scherza, ma neanche troppo.
Molti pensano che l’industria del cinema e del mondo dello spettacolo abbiano un peso minore nella crisi che ci ha travolto. Perché secondo lei?
Il cinema, il teatro e in generale tutto lo spettacolo, non hanno mai goduto di grande popolarità a livello politico nel nostro paese. C’è stato anche qualche onorevole, se non ministro, che ha sentenziato: “Con la cultura non si mangia”. Parole profetiche in questo momento. Un Presidente del Consiglio della sinistra, nel suo discorso d’insediamento, non pronunciò neanche una volta la parola “cultura”, che è sempre stata vista con fastidio, come un intralcio. Anche perché, nel tempo, era stata quella che si era permessa di fustigare i costumi propri di quella politica: mi viene in mente Pasolini, Sciascia, per citarne soltanto due…
Nel suo ultimo libro “Forte respiro rapido” si parla molto di cinema, di set e di prime e seconde visioni in alcune sale cinematografiche di Roma che non ci sono più. Cosa rimpiange di più del passato su ciò di cui parla nel suo libro?
Tutto. Rimpiango tutto. Ad un certo punto del mio libro mi rivolgo questa precisa domanda: “Era meglio prima?” e la risposta è secca: “Sì, era meglio prima!” . Ci ho pensato parecchio prima di darmi questa risposta ed ero anche tentato di accondiscendere, di non esagerare, spinto dal pensiero: “Lo dici solo perché eri più giovane e ti sembrava tutto migliore, solo per quello…”. No, l’ho scritto e lo ribadisco perché ne sono convinto e non ho neanche voglia d’illustrarne gli innumerevoli esempi.
Lei è stato aiuto regista nei film di Alberto Sordi “Polvere di Stelle” e “Finché c’è guerra c’è speranza”. Cosa ricorda con più affetto di quelle due esperienze?
L’aiuto regista era Carlo Vanzina, bravissimo, io ero l’aiuto dell’aiuto, l’assistente alla regia. “Polvere di Stelle” per me è il miglior film di Sordi da regista, un film faticosissimo, con migliaia di comparse, un caldo infernale e un divertimento eccezionale. Vedere Sordi che spiegava ai piccoli e grandi attori come dovevano dire certe battute mi ha fatto capire tantissimo sulla recitazione. E poi l’emozione da pelle d’oca quando è uscito sul palcoscenico del Teatro Petruzzelli di Bari, per calmare le mille comparse in platea, sedute e ormai stanche, ce l’ho ancora conficcata in fronte come un proiettile di diamante.
La pandemia, nonostante il suo lato tragico, ha creato molte situazioni da Commedia all’italiana. Cosa ne pensa di queste nuove abitudini e restrizioni?
Della pandemia a livello sociologico non ci libereremo tanto presto e ha fatto bene Enrico Vanzina a parlarne nel suo “Lockdown” all’italiana. Solo che lì si pensava che passata la prima ondata tutto sarebbe finito e invece no: ci siamo accorti che non è così e che dovremo continuare a farci i conti ancora per un bel pezzo, forse anni. Come si fa a girare una storia, ambientata oggi, senza tener conto, per esempio, delle mascherine: gli attori dovranno imparare a recitare con mezza faccia, sempre di più con gli occhi, come nel cinema muto.
Nel suo libro lei dedica molte pagine a Vittorio Gassman, con cui suo padre, Dino Risi, ha girato ben 16 film. Sicuramente uno degli attori che prediligeva. Quali erano gli altri?
Gassman, nel senso di Vittorio, era l’attore feticcio di mio padre. Anzi, mio padre era Vittorio Gassman e un po’ anche viceversa. Quando ero piccolo e andavo a vedere un film di mio padre con Vittorio Gassman lo riconoscevo in un sacco di scene, gags, battute e gli volevo bene come volevo bene a mio padre. Poi c’erano gli altri, che amava in ugual modo ma sempre un gradino sotto al suo grande amore Vittorio. Gli altri erano: Tognazzi, Mastroianni, Sordi… quello che gli creava più problemi era Manfredi: lo chiamava “l’orologiaio svizzero”, per la sua meticolosità, al limite della pedanteria.
E’ vero che suo padre considerava Pietro Germi il miglior regista?
Pietro Germi era il migliore della Commedia all’italiana e non soltanto secondo mio padre, anche Fellini ne aveva grande considerazione. Fra le definizioni di mio padre sui “maestri”, solo a Germi era toccato l’appellativo di “Regista”.
Suo padre, Dino Risi, era molto amico e stimava Federico Fellini. E viceversa. Cosa avevano in comune?
Fra mio padre e Fellini c’era molta simpatia, ho avuto modo di constatarla in un incontro, casuale, nell’ ’85 in Via Veneto. Fellini si è seduto al nostro tavolino e i due, che non si vedevano da un bel po’, prima si sono abbracciati, baciati, toccati felici di vedersi, come se si volessero veramente bene. E poi sono andati avanti a chiacchierare per un’ora, ridendo come matti. Qualche giorno dopo arriva una telefonata a casa, era Fellini e papà dopo un po’ gli chiede: “Ma tu ci pensi al grande traguardo?”, e lui: “Eh, come no, continuamente…” . Dopo una decina di minuti, però, si sono accorti che c’era qualcosa che non tornava in quel grande traguardo: mio padre parlava della morte e Fellini della fica. Qualcuno potrebbe pensare il contrario ma andò così. Dal punto di vista cinematografico non è che avessero molto in comune, anzi: Fellini era un visionario, un artista, un genio, papà era più attaccato alla realtà e a sbeffeggiarla. Una cosa che li legava era sicuramente la passione per le balle, Fellini a più alti livelli.
E’ vero che Ugo Tognazzi soffriva molto la rivalità con gli altri attori?
Come no! Ci stava male, per sua stessa ammissione, e questo lo rendeva ancora più simpatico. Il suo punto debole, più debole degli altri, era Nino Manfredi. Quando uscì il film “Per grazia ricevuta”, che Manfredi aveva anche diretto, chiese a mio padre com’era. E mio padre, conoscendo la sua debolezza, cercò di alleggerirgli la pillola dicendogli che la parte migliore del film era quella dove lui non c’era. “Peggio!” disse Ugo “vuol dire che è bravo anche come regista”.
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Il mio prossimo film è un progetto al quale sono legato da un po’ di anni ma del quale non riuscivo a trovare la quadra. Si chiama “Il punto di rugiada”, ha a che fare con i vecchi e c’entra un po’ con il mio libro. Se lei s’immagina una cosa triste è fuori strada. Sarà una sorpresa.
Cosa augura all’Italia per il futuro?
All’Italia faccio tanti auguri. Questo è l’ultimo treno che passa, cerchiamo di non farcelo sfilare sotto il naso e saltiamoci sopra, pagando il biglietto e senza fare i furbi.
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