Il ponte di Renzo Piano diventa un romanzo
Tre anni fa, in una giornata di pioggia alla vigilia di Ferragosto, crollava il Ponte Morandi a Genova. Morirono 43 persone che, per loro sventura, stavano percorrendolo. Il processo per quella strage è in corso (e vede imputata la società Autostrade) e nessuno può dimenticare lo sgomento che provocò in noi quella tragedia. Nei genovesi ma anche in tutti gli italiani che in quell’occasione scoprirono l’insicurezza di ponti e gallerie in cui avevano fiducia. Oggi a scavalcare il torrente Polcevera c’è il nuovo Ponte San Giorgio disegnato dall’architetto Renzo Piano e costruito nel tempo record di 420 giorni. Intervistiamo Carlo Piano (giornalista, scrittore e figlio dell’architetto), che ha appena pubblicato per E/O un romanzo che racconta l’epopea della costruzione del nuovo viadotto. Si intitola Il cantiere di Berto.
Da dove nasce l’idea di questo romanzo?
Ho voluto raccontare l’impresa del ponte attraverso gli occhi di uno dei mille che ci hanno lavorato. Il geometra Berto di Certosa: un uomo qualunque, stempiato e con un po’ di pancetta, che diventa straordinario nella coralità del cantiere. Tra mugugni e orgoglio, che a Genova non è mancato.
Cosa racconta?
Racconta il passaggio dal lutto e lo smarrimento della città fino al riscatto della costruzione seguendo il crescere delle diciotto pile, che germogliavano sul greto del Polcevera. È anche una trasformazione nella vita del geometra Berto, che incontra una donna e un cane senza nome. E poi mi hanno ispirato i pensionati che si assiepavano sulle alture per seguire i lavori…
I pensionati?
Mi sono sempre chiesto perché gli anziani preferiscano i cantieri piuttosto che la partita di calcio in tv o lo scopone con gli amici. Si potrebbe sbrigativamente rispondere che è un espediente per ingannare il tempo, ma non basta: la radice deve essere profonda. Credo che lo spettacolo del cantiere incanti perché è un mondo che muta, dove il domani è sempre diverso. Come se l’incompiutezza contenesse una promessa.
Perché il cantiere?
Come le dicevo c’è sempre qualcosa di magico e ottimistico in qualsiasi cantiere. E nel cantiere di un ponte a maggior ragione: un ponte collega, unisce per mestiere. Il ponte è anche una metafora ancestrale: si dice tagliare i ponti, fare ponti d’oro…
Si parla anche del disastro delle autostrade liguri…
Un disastro che è stato scoperchiato dalla tragedia del ponte e che ancora imprigiona chiunque passi per la Liguria. Come scriveva Leo Longanesi: alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione. E spesso le conseguenze sono funeste. Il cruccio che tormenta Berto è proprio questo: chi si prenderà cura del suo ponte? Chi lo saprà amare?
Come definirebbe il genere del libro?
Mah… non è un libro d’inchiesta giornalistica. Piuttosto un romanzo che racconta un’avventura, con anche qualche colpo di scena. Lo sfondo su cui si dipana la storia è però reale: dai dettagli tecnici di costruzione del viadotto, le difficoltà incontrate verso l’inaugurazione, alle inchieste della magistratura, i processi in corso, e alle passerelle dei politici che nel corso di due anni ne hanno sparate di ogni genere…
Si è trattato di un cantiere speciale…
Sotto vari aspetti. Si trattava di salvare una città rimasta tagliata fuori dai collegamenti con il Nord Italia e con l’Europa. Una città che è anche il principale porto italiano che rischiava di fallire. Speciale anche perché erano due cantieri in uno: mentre si demolivamo i resti del Ponte Morandi nello stesso tempo si costruivano le pile del nuovo viadotto. Tutto questo per cercare di abbreviare i tempi, è stata una disperata corsa contro il tempo.
Anche i numeri fanno impressione…
Ha partecipato l’Italia intera. L’acciaio dell’impalcato proveniva da Sestri Ponente, da Castellammare di Stabia e dalle officine di Valeggio sul Mincio. Ce ne sono volute 24.000 tonnellate, tre volte quello utilizzato per erigere la torre Eiffel. Di calcestruzzo, necessario per le diciotto pile e la soletta stradale, ne sono stati usati quasi 70.000 metri cubi. Quanti bastano per un grattacielo e mezzo delle dimensioni dell’Empire State Building.
Calcestruzzo, acciaio ma anche l’idea di suo padre.
C’è un materiale impalpabile ad animare di poesia questo vascello chiaro che, chiedendo educatamente permesso, scavalca passo dopo passo la Valpolcevera. Parliamo di un ponte fatto di acciaio, ma forgiato nel vento che spazza questa vallata. Si affacciano alla memoria i versi di Litanìa di Giorgio Caproni: Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria.
Di quale materiale sta parlando precisamente?
Questa materia si chiama luce. Scendendo dal Piemonte e dalla Lombardia sul ponte San Giorgio si squaderna il mare luccicante e sfolgora la luce accogliente del Mediterraneo. Di questo grande lago salato che è anche un brodo di culture, da quelle nordiche a quelle orientali, arabe e africane.
Secondo lei quale è stato il segreto dell’impresa?
In cantiere s’intrecciavano mille vite. Vite di uomini non illustri riannodavano la città e quel nodo le rendeva coralmente illustri. Credo che questo sia il segreto che ha reso possibile un’impresa che definire epica non è esagerato.
Intende dire che è stato un successo corale?
Dico che in questa avventura, sospesa tra strazio e speranza, hanno lavorato gomito a gomito tantissimi operai. Tra loro c’era anche mio padre Renzo, l’architetto che il ponte lo ha progettato, ma è stato soltanto uno dei mille, come ama ricordare. Si sentivano i dialetti più dissonanti: dal bergamasco della Val Brembana al calabrese della Sila. I pota, minchia e belin hanno accompagnato il dipanarsi della stilata componendone la colonna sonora. E poi, come nel racconto biblico della Torre di Babele, si parlava anche arabo, spagnolo, l’indiano tamil. Spesso tra carpentieri si capivano a gesti che sono l’esperanto del cantiere.
Lei definisce il cantiere un gesto di pace…
Edificare stempera le differenze ed è soprattutto un gesto di pace, ma anche di solidarietà e bellezza. Intendo la bellezza nel suo valore classico e mediterraneo di kalokagathìa, dove il bello non è vacua cosmesi ma inscindibile dal buono. Sa che hanno partecipato oltre 40 mestieri alla costruzione.
Quali?
Geologi, ponteggiatori, palificatori, dronisti, esplosivisti, fuochini, demolitori, gruisti, sabbiatori, ingegneri ovviamente, verniciatori, saldatori… Nel libro sono citati tutti i mestieri che hanno collaborato assieme per rendere il sogno realtà. Una squadra straordinaria…
Quest’opera ha rappresentato in qualche modo un riscatto?
Vede, la costruzione del ponte ha avuto puntati addosso i riflettori dell’Italia intera. Una nazione squassata dalla pandemia e dalla crisi, con un gran bisogno di immaginare il futuro oltre le mascherine. Un germoglio di speranza per un Paese che (quando ci si mette di buzzo buono) dimostra di saper fare le cose senza impaludarsi in corruzione, mafie e burocrazia.
C’è anche un cane che non ha nome tra i protagonisti del romanzo.
Nel corso del racconto un nome lo avrà, ma non vi dico quale. Mi piacciono i cani, ma non quelli piccoli e dall’abbaio isterico. Mi piacciono i cantieri, perché ogni giorno sono diversi da quello precedente.
Cosa pensa suo padre del Cantiere di Berto?
Non lo ha ancora letto… nel libro lo chiamo l’architetto-che-il-mondo-ci-invidia. Le saprò dire se la prende bene…