L’Italia, un Paese per bamboccioni
Quand’ero bambino io, e prima di me tanti altri e si narra come leggenda che le cose fossero sempre andate così, per andare a scuola – già dalle elementari – si usciva di casa con un certo anticipo (perché guai ad arrivare a portone già chiuso: si rischiavano note, sospensioni e pure scapaccioni), si passava dall’alimentari a comparsi un panino, si entrava in aula. E poi, al suono della campanella, si ripeteva lo stesso cammino, a percorso inverso, saltando solo la tappa all’alimentari per non incorrere nelle ire di nonne e mamme che per pranzo preparavano l’impossibile. Tutto questo lo facevamo da soli, e ci sembrava anche un’impresa di cui andar fieri. Al massimo, ci si ritrovava in gruppo, coi bimbi vicini di casa. Non c’erano automobili in fila ad attenderci, manco con la pioggia: al massimo qualche nonno, che oltre a tener d’occhio il nipote, sorvegliava burbero e discreto anche quelli degli altri suoi colleghi di briscola. E nonostante tutto, siamo cresciuti ed invecchiati. Non so se bene o male, anche se quel che accade oggi induce a propendere per la seconda ipotesi.
A leggere le cronache, ormai, è una sfilata di sani nemici delle tendenze del giorno: i figli non vanno cresciuti nell’ovatta, i genitori non devono essere i sindacalisti dei figli, che scandalo quei genitori che fanno dei figli ciò che loro avrebbero voluto essere e non sono, e via dicendo. Vai in libreria, e trovi volumi mai a buon prezzo di autorevoli firme che ti spiegano come essere e (e non essere). Leggi i resoconti parlamentari, e t’imbatti in gente che seria e preoccupata discetta di bamboccioni e cervelli in fuga. Poi, però, guardi al mondo com’è e ti rendi conto che i cervelli sono sì in fuga, ma dal cranio.
Non c’è altra ragione che questa alla base del tempo che abbiamo costruito per noi e per le generazioni future. Che presto o tardi, per decreto o moda (la sostanza non cambia) saremo costretti ad accompagnare dalla culla alla tomba. Letteralmente, mano nella mano. È notizia fresca la direttiva con cui il ministero della pubblica istruzione ha sostanzialmente imposto ai dirigenti scolastici un preciso obbligo di legge. Una norma comportamentale derivante da una sentenza della Cassazione. Il che non giustifica la decisione, ma evidenzia semmai lo stato di complessivo disorientamento nel quale una nazione intera è caduta, ad iniziare dalle istituzioni di sistema. Cosa prescrive, quella direttiva? Che fino al terzo anno di scuola media, e comunque fino a quando non abbiano compiuto i 14 anni, al termine delle lezioni gli studenti vadano riconsegnati direttamente ai genitori. Insomma, non si potrà tornare a casa da soli, ma solo con papà o mamma. E, quale unica eccezione forse (forse!) possibile, attraverso un loro delegato. Naturalmente per iscritto e magari con tanto di autentica notarile sulla firma. Ragioni di sicurezza, certo. Necessità, per prèsidi e insegnanti, di ben delimitare doveri e responsabilità alla luce di codici, leggi e sentenze. Ineccepibile. Risposta sensata alle tante famiglie che chiedono sicurezza. Giusto. Ma ai ragazzi, chi ci pensa? Se a 13 anni e 364 giorni di vita un fanciullo italiano non è considerato dal suo Stato (dai ministri, dai giudici, dai familiari) nemmeno capace di poter tornare a casa da solo, quando acquisirà un briciolo di senso di responsabilità? Quando ed in che modo imparerà a cavarsela da sé, senza aspettare che da dietro l’angolo spuntino mamma e papà, per vocazione naturale e sempre più ripida inclinazione protesi a mettere una pezza a tutto, ed a generare la convinzione che tutto alla fine s’aggiusti, di riffa o di raffa?
«Così torniamo indietro di decenni: mentre nel resto d’Europa si suggerisce alle famiglie di mandare da soli i figli a scuola già alle elementari, qui da noi si dovrà attendere la fine delle medie«, la reazione sconsolata dei dirigenti scolastici. Destinato a cadere nel nulla il richiamo all’Europa, non trattandosi di questione interessante le Banche, cosa resta da fare? Io da domani ogni giorno andrò a riprendere mio figlio a scuola. Prima, però, mi fermerò all’alimentari, a mangiare un panino per ricordare, con infinita nostalgia, com’era bello il tempo in cui eravamo ignoranti e felici.