La veglia funebre della destra italiana
C’era una volta la destra: ed era una cosa seria. Aveva un suo cuore, un suo onore e un’idea di come cambiare il mondo. Era spesso velleitaria e infantile ma aveva il pregio di sforzarsi di leggere il presente anche dal suo passato ingombrante; e lo faceva attraverso la forza di un pensiero fertile e creativo. In quella destra leggevano tutti, belli e brutti: gli esoterici leggevano Evola e Dylan Dog, gli avventurosi Jünger e Corto Maltese, gli ironici Marinetti e Asterix, i lirici Pound e Yeats, i romantici Tolkien, i trasgressivi Pasolini e Cioran, i dissacranti Bukowski e Tex Willer. In quella destra c’erano cultura e manici di piccone; secchi di colla e notti insonni davanti ai muri dei propri caduti.
Quella destra, nel silenzio della sua marginalità storica, produsse anche grandi figure politiche incompiute perché strappate alla vita troppo presto. Penso a Pinuccio Tatarella, il grande stratega che vide il centrodestra prima del centrodestra; penso a Tony Augello, il tessitore lucido di una destra romana che fu uno dei più grandi laboratori politici d’Italia; penso a Marzio Tremaglia, che seppe conciliare pensiero e governo della politica; e penso a Paolo Colli che insegnò alla destra l’ecologia, la solidarietà e l’amore per la vita.
Quella destra aveva circoli, sezioni, militanti, entusiasmo. Era popolare e proletaria come quella dei fratelli Mattei, i figli del netturbino missino bruciati vivi dai giovani ricchi che giocavano alla rivoluzione comunista; ed era colta e borghese come quella di Paolo Borsellino e di un’idea dello Stato lontana anni luce da quella che poi un cinico leader e i suoi ingordi colonnelli avrebbero incarnato.
Quella destra, romantica e moderna, ci piaceva assai; non i suoi eccessi, le risacche caricaturali o molti suoi esponenti da avanspettacolo. Ci piaceva quel suo essere comunità in cammino, consapevole che per entrare nella storia occorresse spintonare un po’.
Oggi quella destra non esiste più, cancellata da una stagione politica umiliante, da una classe dirigente inadeguata e a volte cialtrona, travolta da nefandezze morali e incompetenze. Di quel mondo che ha affogato l’anima nel cinismo rimangono due immagini: quella arrogante di Gianfranco Fini e quella surreale di Franco Fiorito.
Ultimo ridicolo epilogo è la recente nomina di Italo Bocchino a direttore editoriale del Secolo d’Italia, il glorioso giornale che fu di Giovannini, Romualdi e Accame e che una gestione dissennata ha ridotto prima ad un foglio semiclandestino e ora ad un piccolo ma orgoglioso quotidiano online.
La sua nomina, decisa dalla Fondazione di An, ha scatenato la rivolta dei militanti. Bocchino è stato uno dei killer della destra italiana, l’espressione sfrontata di una politica da guappi di una classe dirigente miracolata dalla discesa in campo di Berlusconi. Lui è stato l’anima nera di Gianfranco Fini e uno di quelli che con maggiore determinazione ha contributo al fallimento del Pdl e del governo di centrodestra nato dal più ampio consenso popolare della storia repubblicana. I suoi compagni di merende che l’hanno nominato (cioè gli altri colonnelli che siedono nel cda della Fondazione) assicurano che il suo ruolo sarà finalizzato al solo rilancio del giornale; invece di dare il segnale di un cambiamento, di un’inversione di rotta che facesse pensare a una rinascita, hanno deciso di imbalsamare il cadavere.
La destra italiana è ormai una lunga e interminabile veglia funebre.