I vertici del MI6, i servizi segreti britannici, ne sono sempre più convinti: l’uomo che compare nel video della decapitazione del fotoreporter americano sarebbe un inglese chiamato John e conosciuto come il capo di una cellula britannica di jihadisti nota come “The Beatles”. L’orrore nutre a volte un amaro senso dell’ironia; e così la band musicale simbolo della rivoluzione libertaria dell’Occidente è diventato il soprannome di un gruppo integralista islamico che contro quell’Occidente si scaglia.
John è un inglese, esattamente come lo era Michael, il giovane islamico di origini nigeriane che nel maggio di un anno fa uccise un soldato di Sua Maestà alla periferia di Londra, sgozzandolo in pieno giorno in mezzo alla strada e provando, con un coltello da cucina, a staccargli la testa dal corpo ormai senza vita davanti ai passanti terrorizzati. “Per Allah, noi giuriamo l’Onnipotente Allah, non smetteremo mai di combattervi” urlò il giovane inglese ai primi soccorritori che accorsero.
Quel giorno io ero a Londra e vidi la paura attraversare una città che nutriva l’ottimismo sincero e cosmopolita del suo multiculturalismo; un mito che si trasformava in un mostro oscuro e che usciva dalle proprie viscere e si trasformava in incubo.
Per l’Inghilterra la questione non era nuova: gli attentatori suicidi della metropolitana di Londra, che nel 2005 provocarono 50 morti, erano cittadini inglesi islamici di seconda generazione, originari di Leeds; ma quell’attentato sembrava superato.
Michael non era un pazzo, ma un frequentatore del Centro Islamico Lewisham, lo stesso di Khadijah Dare, la giovane inglese che oggi è in Siria a combattere con suo marito, uno svedese di origini turche, e che qualche giorno fa ha espresso su Twitter il desiderio di essere la prima donna a decapitare un occidentale.
Non solo in Gran Bretagna: nel dicembre 2013 in un video di propaganda dell’Isis compariva un ragazzo biondo con gli occhi azzurri che invitava i musulmani tedeschi ad unirsi alla jihad in Siria. Il suo nome era Abu Osama al-Alman, al secolo Philip B., giovane consegna-pizze proveniente da Dislaken, nella Renania settentrionale. Philip ha compiuto il suo martirio all’inizio di questo mese, gettandosi con un camion carico di esplosivo contro una base curda nel nord dell’Iraq presso Mosul. Secondo i servizi dell’intelligence tedeschi sono circa 40 gli islamisti, provenienti dalla Germania, uccisi in Siria e Iraq nell’ultimo anno; ma quasi 400 sono quelli tuttora impegnati in combattimento: turchi, marocchini, libici raccolti in un “campo tedesco” a nord della Siria. Circa l’80% sono immigrati islamici divenuti cittadini tedeschi, e solo il 20% sono tedeschi convertiti.
Quando un anno fa gli islamisti di Al Shaabab fecero 60 morti in un centro commerciale di Nairobi, non molti si soffermarono sul fatto che del commando di 17 terroristi, 11 erano di provenienza occidentale (Usa, Inghilterra, Svezia, Finlandia, Canada).
Perché la natura del nuovo jihadismo che raccoglie combattenti per l’Iraq ma anche per la Siria e per la Libia e che ormai rischia di dilagare sul Mediterraneo (grazie agli errori colpevoli dell’Europa e degli Usa), ha una natura diversa da quella che l’Occidente si ostina a voler vedere per viltà e stupidità. Con buona pace dei politici irresponsabili, degli intellettuali arcobaleno, degli ipocriti dell’umanitarismo ideologico, questo male si sta sviluppando nel cuore dell’Europa; è un nemico che nasce dentro di noi, nelle pieghe di quella libertà di cui noi tutti in Occidente ci facciamo vanto e che rischia ora di diventare il nostro suicidio.
È vero, quello in atto non è uno scontro tra civiltà: è peggio. È lo scontro tra una civiltà (la nostra) e una non civiltà (l’ideologia jihadista); tra ciò che, con molte contraddizioni e qualche stortura, produce libertà, benessere, cultura, diritti umani e ciò che prova a distruggerlo.
Quando qualche anno fa Oriana Fallaci sviluppò il concetto di Eurabia per definire l’orizzonte di fine della nostra civiltà, allora l’Occidente liberal, gli intellettuali ipocriti, i politici vigliacchi e spudoratamente inetti la accusarono di razzismo, ma lei, profetica e incompresa, aveva intuito il male del nostro tempo. Lo scontro in atto non si gioca solo in Iraq, in Afghanistan, in Medio Oriente, nel Maghreb, ma qui a casa nostra. Qui da noi affonda le sue ragioni in un terreno paludoso fatto di stanchezza psicologica, crisi demografica, immigrazione incontrollata, multiculturalismo fallito, perdita d’identità storica e culturale, aggressività di una religione da sempre incline alla sopraffazione e ostile alla modernità. Ci stiamo scontrando con noi stessi, con la follia di un islam che sta crescendo in casa nostra.
L’Occidente si sta decapitando da solo. Se non prenderà coscienza che questa è una guerra che non può essere combattuta con la retorica del multiculturalismo, presto la sua testa rotolerà.
André Glucksmann, uno dei pochi intellettuali liberi che ancora abita la nostra cultura, scrisse che “la civiltà si unisce innanzitutto contro. Contro ciò che la distrugge”. Ci vogliono distruggere. Ricordiamoci di essere una civiltà. Svegliati Occidente!

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