Renzi e l’ansia da prestazione
Il renzismo sta entrando nella sua età più difficile: superata l’infantile visione del mondo nell’ovattata Firenze cattocomunista, protetto da “mamma-partito” che provvedeva a tutto ciò di cui il piccolo Renzi aveva bisogno, e oltrepassata la fase adolescenziale del conflitto col padre (la rottamazione), ora Renzi si confronta con quella difficile età che sta a cavallo tra l’imberbe giovanilismo e la consapevolezza di una propria, non chiara, maturità. E’ una fase delicata perché oscilla tra l’eccesso di sicurezza, il vigore della gioventù e l’inesperienza che porta a inaspettati fallimenti. La potremmo definire una fase acuta di ansia da prestazione che accompagna le sue sbruffonate alle puntuali cilecche. Generare aspettative in politica è ancora più rischioso che a letto e così, l’uomo che doveva cambiare il paese con una riforma al mese, oggi si ritrova con l’Ocse che rifila all’Italia che lui governa la maglia nera tra le nazioni del G7.
Non è solo il problema degli annunci, dei proclami, delle sparate a mezzo slide con cui ha inondato il paese in questi mesi; c’è di più. Quando Renzi ha fatto provvedimenti concreti, i risultati sono stati fallimentari: a partire dal famoso “bouns fiscale”, un’operazione ingiusta socialmente (che regala 80 euro a 10 milioni di contribuenti italiani, lasciando i restanti 25 a bocca asciutta) inefficace, ma soprattutto sbagliata nel principio redistributivo che impedisce di produrre ricchezza e fa condividere povertà (lo abbiamo spiegato qui).
La sensazione è che la facilità con cui Renzi è arrivato al governo del Paese abbia banalizzato, ai suoi occhi, la complessità della fase storica che stiamo vivendo.
Per Renzi, tutto sommato, l’ascesa a Palazzo Chigi è stata come bere un bicchier d’acqua; gli è bastato coniare uno slogan, “rottamazione”, et voilà, come d’incanto, si è ritrovato Presidente del Consiglio.
Oggi si sta accorgendo che governare una nazione di 60 milioni di abitanti, settima economia del mondo, che attraversa una frantumazione sociale incontrollata, una perdita di fiducia irrazionale e nella fase più critica di una crisi globale, non è proprio come governare una città di 400.000 abitanti (Firenze è grande quanto un quartiere di Roma), nella Toscana rossa e nel più collaudato, oliato e impenetrabile sistema di potere clientelare che l’Italia conosca, protetto dal guscio impenetrabile di un partito che in quella regione è padrone assoluto di vite, economie e immaginari; perché questo Renzi ha fatto fino ad oggi e null’altro.
Ciò che gli va comunque riconosciuto è un indubbio coraggio, qualità essenziale per un leader; e ai suoi più stretti collaboratori, (dalla bella Boschi, al saggio Del Rio, fino al mite Lorenzo Guerini) onestà intellettuale, merce rara da trovare dalle parti del Pd.
Se non per l’Italia, Renzi rimane una storica possibilità per la sinistra italiana perché è il primo leader a non appartenere né alla residuale burocrazia del vecchio Pci, né alla tecnocrazia democristiana dei vecchi poteri forti, come Romano Prodi.
Il suo merito rimane quello di aver disarticolato una classe dirigente preistorica che ha fatto, per 20 anni, da prestanome a procure, sindacati, intellettuali e poteri economici, immobilizzando dentro gli interessi di questo sistema e dietro l’antiberlusconismo ideologico, la democrazia del paese e il possibile cambiamento.
Il vero pericolo per Renzi è rimanere prigioniero di se stesso, dell’immagine che si è dato a forza di selfie e tweet, della propria ansia da prestazione dettata dal peccato originale di come è andato al governo. Tra l’indole del famelico realista e il monello combina guai, Renzi deve capire che non deve strafare, ma fare. Oggi rimane un incompiuto, tra Machiavelli e Giamburrasca.