Philip Gordon, è stato consigliere speciale di Obama per il Medio Oriente; l’uomo che dal 2009 al 2013 ha lavorato, più di ogni altro, sui dossier Siria, Iran e Eurasia.
Qualche giorno fa su Politico.com ha pubblicato un intervento in cui (nel linguaggio paludato di ogni diplomatico che si rispetti) ha riconosciuto che, in Siria, gli Usa hanno sbagliato tutto quello che c’era da sbagliare. E forse anche qualcosa di più.
La cosa ci rallegra non tanto per l’America, i cui errori stiamo scontando noi europei in maniera drammatica, quanto perché l’analisi di Gordon zittisce quei compulsivi atlantisti per i quali,  criticare l’America, è una sorta di lesa maestà al diritto naturale.

L’intervento di Gordon, lucido e approfondito, è dirompente, anche perché analizza lo scenario mediorientale dopo l’intervento della Russia e ammette la necessità di “un nuovo processo diplomatico che porti i principali attori esterni ad un tavolo per concordare un compromesso (…) anche se questo significa rimandare la questione Assad”.

3 ELEMENTI CAMBIANO LO SCENARIO
Tre sono gli elementi che per Gordon cambiano lo scenario siriano:

  1. L’emergenza profughi che a “decine di migliaia” (in realtà a centinaia di migliaia e potenzialmente a milioni come abbiamo dimostrato qui) stanno affluendo in Europa per fuggire alla guerra civile.
  2. Il fallimento nell’addestrare e formare una forza militare di opposizione “moderata” in grado di rimuovere il governo di Assad e stabilizzare la Siria; opposizione che, ammette Gordon, oggi “è profondamente frammentata e dominata da estremisti” (leggi jihadisti).
  3. La comparsa della Russia nel teatro siriano a difesa dei suoi interessi geostrategici e del suo storico alleato Assad, ma anche per la preoccupazione, secondo Gordon “reale e fondata”, che la caduta di Assad non porterebbe stabilità ma ancora più caos.

I tre elementi sono un “mea culpa” sul modo con cui Washington si è rapportato alla polveriera mediorientale in questi anni.

Analizziamoli:
La questione profughi era altamente prevedibile e questo fa ritenere che, per la Casa Bianca, fosse tutto sommato un male minore rispetto al risultato di vedere l’odiato Assad capitolare. Bastava analizzare l’effetto dell’intervento Nato in Libia, in termini di flussi migratori verso l’Europa, per capire cosa avrebbe portato la destabilizzazione della Siria sommata alla non risolta questione libica (lasciata tuttora nel pieno di un caos).

Il fallimento del programma di reclutamento e addestramento dei ribelli anti-Assad, è forse quello più sconcertante e non ha eguali nella storia militare americana. Lo stesso Gordon è costretto ad ammettere che attualmente “meno di dieci combattenti addestrati negli Stati Uniti” stanno fronteggiando l’Isis, a fronte di un impiego di risorse di miliardi di dollari. Questa storia, che rasenta il ridicolo, noi siamo stati tra i pochi a raccontarla nello sconsolato silenzio del mainstream occidentalista; una storia che Peter Baker sul New York Times (giornale vicino all’attuale establishment Usa) ha definito “un fallimento abissale dell’amministrazione Obama”.

La mossa russa in Siria ha cambiato le regole di un gioco che l’America, comunque, non controllava più. Se da una parte diminuisce il ruolo di Washington, dall’altra toglie la Casa Bianca dal vicolo cieco in cui si era nuovamente infilata (dopo la famosa storia della “red line”). Ora la scusa c’è: la rimozione di Assad non può più essere perseguita, non perché è fallito il progetto americano ma perché ora ci sono i russi.

PRIMA CONSIDERAZIONE
Interessante notare come per Gordon, l’ascesa dell’Isis non è elencata tra le variabili impreviste che dovrebbero spingere l’America a cambiare la sua strategia in Siria. Erano imprevisti i profughi, era imprevisto il fallimento dell’addestramento ai ribelli, era imprevista la discesa in campo della Russia ma non la travolgente comparsa sulla scena del Califfato. Perché? Non è che per caso, gli strateghi di Washington, questo lo hanno previsto e magari aiutato in chiave anti-Assad, per poi non essere più in grado di controllarlo? Ci fermiamo qui per non cadere nella solita accusa di complottismo.

OBIETTIVI E MEZZI
Secondo Gordon, che riconosce con grande onestà intellettuale di essere stato “tra quelli che hanno sostenuto una maggiore assistenza, anche militare, all’opposizione siriana”,  il problema essenziale “è stata la mancata corrispondenza tra obiettivi e mezzi: l’obiettivo di rimuovere il regime di Assad si è dimostrato irraggiungibile con i mezzi che sono stati usati”.

Spieghiamolo, uscendo dal linguaggio tecnico: pensare di effettuare il regime change con la guerra per procura è stata un’ingenuità.
In Libia fu possibile perché francesi e inglesi si prestarono alla mattanza; l’Onu accolse le menzogne e i dossier taroccati della Cia e di Hillary Clinton su presunti crimini commessi da Gheddafi (ma negati dalle stesse organizzazioni umanitarie e dal Pentagono)
e la guerra a Tripoli si trasformò nella solita guerra umanitaria generatrice di disumanità ed orrori prolungati (Su come la Cia e Hillary Clinton manipolarono le informazioni per scatenare l’intervento Nato su Gheddafi, rimando a questo articolo di una storia anch’essa ovviamente ignorata dai grandi mezzi d’informazione democratici).

Ma la Siria non è la Libia; e Assad non è Gheddafi; non è un leader isolato nel contesto internazionale ma ha alleati potenti e determinati.

Gordon, nel suo lungo articolo, spiega con dovizia e cura analitica i precedenti di Bosnia e Iraq, polemizzando con quanti accusano l’amministrazione Obama di debolezza in Siria senza tenere conto che per realizzare l’obiettivo della rimozione di Assad (vera ossessione dei falchi di Washington di destra e di sinistra), occorrerebbe una cosa sola: “mettere gli stivali sul terreno”, cioè essere disposti ad un’invasione militare di terra, cosa, ovviamente insostenibile.
E allora,“se potenziare i nostri mezzi per raggiungere i nostri obiettivi non è un’opzione praticabile, l’alternativa è quella di modificare i nostri obiettivi, accettando che, a questo punto, sia sufficiente fermare il conflitto” (quindi non più rimuovere il regime di Assad); ma “fermare il conflitto richiederà che tutte le potenze regionali  che ora lo stanno alimentando – tra cui Russia, Iran, l’Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti – facciano  i conti con la realtà che i loro obiettivi massimi non possono essere raggiunti”.

SECONDA CONSIDERAZIONE
È interessante notare come tra i soggetti che Gordon immagina debbano risolvere il problema siriano, l’Europa non c’è; nonostante il Mediterraneo sia area geopolitica centrale degli interessi strategici dell’Unione, l’Europa non è considerata un attore politico degno di partecipare alla soluzione del problema.
Questa fantasmagorica costruzione artificiale, che le fanfare dell’europeismo militante ci decantano continuamente, in realtà non conta nulla nello scacchiere internazionale: è solo una moneta creata dal nulla ed un costoso e inutile apparato burocratico. I leader europei sono semplici esecutori di volontà altrui; esattamente come dev’essere per la marginale provincia di un impero in crisi.


Su Twitter: @GiampaoloRossi

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