La lingua di Renzi
“ORAIT E NOIO”
Sul web impazza un altro video di Matteo Renzi alle prese con le sue difficoltà linguistiche. Dopo quelli che fecero il giro del mondo, in cui parlava un inglese maccheronico ed in cui scoprimmo di avere a Firenze il “Devid of Maichelangelo”, ora questo in cui si avventura nel francese durante la sua visita in Senegal.
Secondo i soliti critici anti-renziani e puristi esterofili, se nei primi sembrava l’Alberto Sordi di “Un americano a Roma” (“orait orait…auanagana”), qui assomiglierebbe più al Totò di “noio, volevan savuar…”.
Ad onor del vero va detto che il suo francese è di gran lunga migliorato rispetto all’ultima volta in cui ha provato a cimentarcisi; un anno fa durante la visita ufficiale a Parigi, iniziò il suo discorso nella lingua di Voltaire ma dovette rinunciare dopo un minuto. Ora è stato in grado portare a termine un intero intervento, segno che la sua dedizione ad imparare le lingue è ammirevole e di gran lunga superiore a quella che mette per governare l’Italia.
Ma il punto è un altro: perché, nei contesti ufficiali, Renzi sente il bisogno di rinunciare alla lingua del popolo che rappresenta e adottarne una straniera? Qualcuno, perfido, risponderà: perché lui non rappresenta alcun popolo, visto che non è stato eletto. Obiezione giusta ma forse bisogna andare più in profondità alla questione, tanto più che un fiorentino come lui dovrebbe tenere all’italiano anche più di un siciliano o di un veneto: se non altro per un diritto di primogenitura.
Certo, ci sono occasioni più informali in cui parlare l’idioma del paese che ti ospita o comunque adottare un’altra lingua, è un gesto di cortesia (per esempio in un’intervista o durante un convegno all’estero); ma un politico (e soprattutto un capo di governo), quando va in visita ufficiale parla la lingua del proprio Paese, della nazione di cui dovrebbe difendere la sovranità e gli interessi.
UNA LINGUA, UNA NAZIONE
La lingua non è un accessorio decorativo, né un elemento neutrale di un’identità. Lo aveva compreso già 250 anni fa il grande filosofo tedesco Johann Gottfried Herder quando definì “la lingua ciò che individua una nazione”. In altre parole la lingua è uno dei simboli della sovranità nazionale. Ogni volta che si rinuncia alla prima, si rinuncia anche alla seconda.
Siamo sicuri che qualcuno obietterà: “ma dai, è roba vecchia… addirittura scomodi un filosofo del ‘700… siamo nel mondo globalizzato… ecc. ecc.”.
Fatto sta che parlare lingue altrui non è da leader di un grande Paese: ce lo vedete voi Hollande venire in Italia e fare i discorsi ufficiali in italiano? O il Presidente americano o il Primo Ministro britannico andare a Parigi e parlare in francese? Ce la vedete voi la Cancelliera tedesca (la cui lingua è molto meno conosciuta dell’italiano) andare a Mosca e parlare in russo? O Il presidente russo o il premier spagnolo rinunciare ad esprimersi nella lingua del proprio paese? Ovviamente no.
Sono i leader colonizzati che rinunciano alla propria lingua, o i maggiordomi dei poteri apolidi; e Renzi forse è sia l’uno che l’altro.
Quando si reca all’estero e rinuncia a parlare nella nostra lingua, è come se volesse mandare un messaggio ai suoi veri padroni che non sono i cittadini italiani ma i banchieri, i tecnocrati, i costruttori di quel potere mondiale che vede ogni identità e ogni diversità come un ostacolo da abbattere; è come se dicesse loro: “vedete? Io non rappresento un popolo, una nazione, ma rappresento voi”.
Qualcuno spieghi al Presidente del Consiglio italiano, così ossessionato dalla sua immagine, che rinunciare alla propria lingua non è “da figo”; semmai è “da servo”.
Su Twitter: @GiampaoloRossi
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