trumpGLI SCONFITTI DI CUI NON SI PARLA
Con la vittoria di Trump hanno perso in tanti: la Clinton e i democratici americani; George Soros e le sue femministe a libro paga; Goldman Sachs e i sauditi che speravano di avere una Presidente che li ripagasse dei milioni di dollari che in questi anni le hanno generosamente donato; la Cia e l’apparato tecno-militare che con il pacifista Obama, ha fatto affari d’oro tra guerre umanitarie e traffici d’armi democratici.

Ma tra i grandi sconfitti dall’elezione di Trump ci sono sopratutto loro: i Neocon, l’élite intellettuale (di destra!) che in questi anni ha dominato il dibattito politico americano (ed anche europeo) sui media, nelle università, nei think tank, occupando le aree strategiche e i gangli del potere: dalla Cia, al Dipartimento di Stato, dal Pentagono, alla Casa Bianca, al mainstream.
Eh si, perché i Neocon sono stati la più influente corrente intellettuale degli ultimi 15 anni, capace di condizionare la politica estera americana sia di Bush che di Obama.

CHI SONO?
Nati nei campus universitari tra gli ambienti liberal (alcuni addirittura erano ex trotzkisti), traslocarono nel movimento conservatore negli anni’80; ufficialmente erano giovani intellettuali di sinistra convertiti all’anti-comunismo duro e puro e animati da un desiderio di maggiore interventismo americano negli affari del mondo. Ma qualcuno dice che furono traghettati dentro il Gop, da precisi centri di potere con lo scopo di snaturare la destra americana.
Il loro obiettivo? Portare l’idealismo della sinistra, a destra, annientando il realismo isolazionista del movimento conservatore e trascinandolo in una politica estera fatta di guerre umanitarie e progressiste.

Tenuti ai margini da Ronald Reagan, e tutto sommato anche da Bush padre, hanno invece avuto un peso nella teoria della “guerra umanitaria” di Bill Clinton; ma sono diventati influenti (anzi egemoni) dopo l’11 Settembre con Bush figlio quando molti di loro furono nominati ai vertici del Partito Repubblicano e con ruoli alla Casa Bianca e nell’establishment; ruoli che in molti hanno conservato con Obama e sopratutto con la Clinton, Segretario di Stato.
Il loro PNAC (Project for the New American Century) è stato lo strumento teorico e operativo per costruire “la leadership globale americana”; e la guerra in Iraq, il loro primo grande “capolavoro” (più che quella in Afghanistan) perché diede corpo alla missione salvifica del mondo che gli strateghi si erano posti.

PNACMax Boot, uno degli esponenti di punta del movimento, lo spiegò nel 2002 sul Wall Street Journal alla vigilia dell’invasione: “I Neoconservatori credono nell’uso della potenza americana per promuovere gli ideali americani all’estero”.
In parole povere: esportare la democrazia con le bombe risponde agli interessi strategici Usa e serve a salvare il mondo dalla barbarie.

La loro ossessione per le guerre umanitarie ha trovato poi in Obama il Presidente ideale: perché non c’è nulla di meglio che un “pacifista” per giustificare bombe e regime change.
Certo l’accordo con l’Iran non l’hanno approvato (per molti di loro Teheran doveva essere bombardata), ma dalla Primavera araba in poi (Libia, Egitto, Siria, Yemen, Ucraina), Obama è riuscito a fare quello che neppure Bush avrebbe mai fatto; con loro somma gioia.

IL #NEVERTRUMP DEI NEOCON
Quando Trump è comparso sulla scena politica, tra gli sberleffi dei radical-chic e la diffidenza ostile del vertici del Gop, i Neocon hanno preso le distanze in maniera violenta. Non poteva essere altrimenti: Trump ha ricordato che la guerra in Iraq è stata “la peggiore decisione” per l’America, e fu costruita su una bugia (quella sulle armi chimiche); che l’intervento in Libia è stato sbagliato; che in Siria bisognava combattere l’Isis e non aiutarlo; che la strategia di “abbattere” Assad si è rivelata un errore; che Putin non è il criminale dittatore in procinto di invadere l’Occidente, ma un possibile alleato degli Usa nella lotta all’islamismo; che la Nato è un’alleanza obsoleta e costosa per gli Stati Uniti.
Troppo per i poveri Neocon spaventati da un candidato non disposto (almeno a parole) ad appoggiare “l’avanzata della libertà” a suon di bombe e rivoluzioni “colorate”.

E così, nel marzo scorso, oltre 100 di loro hanno firmato una lettera aperta per prendere le distanze da Trump: “siamo in disaccordo tra di noi su molte cose ma uniti nell’opposizione ad una Presidenza Trump”; lo hanno accusato di essere “selvaggiamente incoerente” in politica estera, “disonesto”, “ricattatore” verso gli alleati, “ammiratore di dittatori stranieri come Putin”, “pericoloso per l’America” e per il suo ruolo nel mondo e “totalmente inadatto alla carica”.
Tra i firmatari, sostenitori della guerra in Iraq come Eliot Cohen, vice segretari di Stato e membri di spicco del Pentagono sotto Bush, come Robert Zoellick e Dov Zakheim, capi di aziende del settore Difesa come Bryan Mc Grath e molti altri membri della Comunità della Sicurezza Nazionale dei repubblicani.

Alcuni di loro si sono limitati a non votare Trump; altri hanno addirittura fatto “ritorno a casa” scegliendo la Clinton più in linea con le loro visioni politiche guerrafondaie.
Tra questi Robert Kagan uno dei teorici della guerre di George Bush, che in campagna elettorale ha deciso di lasciare il Partito Repubblicano con un edorsement a favore della Clinton più in linea con le sue visioni guerrafondaie, non prima di aver definito Trump un “egomaniaco” e un “miliardario fasullo che porterà l’America dritta dritta verso il fascismo”.
D’altro canto, la moglie di Kagan è quella Victoria Nuland, figura di spicco nell’amministrazione Obama e protagonista del “colpo di Stato”, camuffato in rivoluzione democratica, orchestrato da Soros e dalla Clinton in Ucraina (della signora Nuland e del suo attivismo in Ucraina abbiamo parlato a lungo qui).

E ORA?
Ora la vittoria di Trump sembra cacciare nell’ombra questi teorici delle bombe umanitarie, volto influente del grande Partito della Guerra, trasversale alla destra e alla sinistra, finanziato da Wall Street e protetto dalla Cia, che si è imposto in America in questi anni.

La loro sconfitta è anche il segno della frattura insanabile che si è creata tra questa élite “illuminata” e l’elettorato conservatore, storicamente più isolazionista e più centrato sui bisogni reali dell’America che non sull’esportazione della democrazia con le bombe.

Ma siamo solo agli inizi e non sappiamo se la politica estera del nuovo Presidente manterrà le promesse di una linea più “pacifica” e indirizzata a cercare nel mondo nuovi amici, più che a inventarsi nemici.
Certo per ora colpisce vedere alcuni Neocon ammettere gli errori di un interventismo illimitato e della “esuberanza ideologica” e approdare ad un più prudente realismo in politica estera. Il fronte ideologico che in questi anni ha legittimato i disastri americani in Medio Oriente e la destabilizzazione di intere aree del mondo, si sta sgretolando? Forse.


Su Twitter: @GiampaoloRossi

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