Non sarà più come prima
La figura di un sacerdote si staglia nella solitudine di un capannone per benedire per l’ultima volta la fila di bare che l’obbiettivo non riesce a contenere facendole apparire infinite. Il coronavirus ha messo l’umanità occidentale di fronte al più nascosto dei suoi tabù e alle più inconfessabili alienazioni. La vecchiaia, il dolore, la malattia e la morte sono improvvisamente reali in quella colonna di mezzi militari che trasporta la generazione dei nostri padri, del dopoguerra e del boom economico, falcidiata per sempre. Immagini che come uno schiaffo, hanno risvegliato le coscienze e illuminato, come un lampo, i contorni di un mondo di esseri socialmente invisibili, chiusi negli ospedali, nelle case di cura, negli ospizi o in una semplice stanza a lottare contro l’alternarsi inutile dei giorni che si susseguono. Improvvisamente i nostri vecchi sono emersi dal sonno della coscienza sociale, diventati innominabili simboli da dimenticare nel tabù della morte che pervade la nostra contemporaneità. I dati snocciolati ogni giorno dalla Protezione Civile sono diventati l’Antologia di Spoon River del nuovo millennio. Vittime predestinate della pandemia, in cui inizialmente pareva addirittura intravedere un certo cinico sollievo. Non si tratta di insensibilità, ma del rifiuto di subire un’emozione provocata della morte annunciata, il timore del crollo per paura del dolore interiore.
Eppure è insito nell’uomo tentare di addomesticare l’idea della propria fine, anzi la capacità di dialogare con la morte è il miglior indicatore di civiltà. Seneca diceva che la vita è in equilibrio su un piano inclinato e tanto vale non opporre resistenza alla discesa inevitabile. Nelle grandi civiltà antiche la morte ha fatto parte dell’esistenza come l’ineludibile completamento del destino individuale da gestire nei riti della partecipazione collettiva, utili ad allievare i sentimenti di perdita, dolore, passaggio. La ritualizzazione del lutto permette al defunto di rimanere come persona nella storia del tempo e ai sopravvissuti di vivere il dolore, trovare conforto negli altri e non dimenticare. In questa nostra modernità la situazione si è capovolta, alimentando una ‘morte sporca’ come diceva il filosofo Jean-Paul Sartre se confrontata con la spontaneità della mitologia funebre. La longevità ha reso difficile morire con dignità. Ci sono persone che muoiono due volte prima per la società e poi nel corpo, superstiti dell’esistenza, tacitamente emarginati, inconsapevoli clandestini sociali, corpi senza dignità e senza passato; un mondo sommerso creato dalla crisi della famiglia, dall’alienazione urbana, dal favore mediatico per la giovinezza ad ogni costo, che ha scavallato in silenzio il XXI secolo.
L’attuale pandemia ci ha messo in contatto emozionale con la morte attraverso due sentimenti che la nostra cultura aveva dimenticato: la solitudine e la commozione.
La società del millennio in fondo teme i sentimenti forti ed esige autocontrollo. Difendendo il diritto di piangere, il sociologo inglese Goffrey Gorer diceva che ormai “si piange solo in privato così come ci si spoglia o si riposa”. Ora, in soli due mesi, coralmente tutto il mondo ha pianto, prendendo parte a un rituale corale, si è emozionata con quanti lottavano per salvare vite, ha condiviso il dolore della perdita e del lutto, ha provato sulla pelle la sofferenza psicologica e il senso di impotenza del personale medico, ha manifestato cordoglio, ha sentito sulla pelle la solitudine dei malati e dei morti. Sono esperienze profonde che rimarranno impresse nell’immaginario collettivo e lasceranno nei sopravvissuti lacerazioni e emozioni inconfessate. Sono ferite interiori con cui, quando la pandemia sarà finita, ci troveremo a dover fare i conti. Vinceremo questa battaglia non solo con l’affievolirsi del virus, ma obbligandoci a rileggere i rapporti sociali con gli occhi dei sentimenti più intimi riemersi in questo tragico momento e a tradurli in un attaccamento per le cose vere della vita. Di certo non sarà più come prima.