1918 La Grande Pandemia
Riuniti all’interno di un vagone ferroviario i rappresentanti delle nazioni vincitrici siglano le condizioni di pace della Grande Guerra. In quei mesi l’Europa è già stretta nella morsa di un virus influenzale che di lì a poco avrebbe scatenato una pandemia universale. Il focolaio che nel 1918 ebbe luogo nella neutrale Spagna – da cui prese il nome – dimostrò fin da subito un potere invasivo mai visto prima causando tassi di mortalità impensabili. Dalla Spagna (che contò 8 milioni di morti) il virus si diffuse subito al fronte di guerra attraverso l’invio di animali da soma e da macello, propagandosi prima nelle trincee francesi, poi negli accampamenti militari sovraffollati. I soldati che lasciavano le linee nell’ultimo anno di guerra facilitò il diffondersi della pandemia alla popolazione civile. La velocità di diffusione del virus e l’intensità non permisero mai di valutare con precisione l’origine del contagio. Chi ritenne provenisse dalla Cina, chi da laboratori batteriologici attivi durante la guerra sul fronte tedesco, chi dai 9 mila soldati del campo americano di Funston in Kansas che, decimati dall’influenza, il 29 settembre raggiunsero ugualmente il porto di Brest in Francia a bordo del Leviathan. In ogni caso già nell’agosto del 1918 il virus era comparso pressoché simultaneamente in Europa, negli Stati Uniti e sulla costa occidentale dell’Africa sfruttando il contagio tra soldati, mentre in altre zone del mondo arrivò attraverso le imbarcazioni commerciali. In un solo mese, comunque, raggiunse i due terzi della popolazione del mondo uccidendo il 3% dei contagiati.
Un quinto della popolazione di tutto il mondo fu colpita dalla malattia che si propagò in due ondate nel 1918 e nel 1919 con un tasso di mortalità tra lo 0,5 e l’1,2 % (circa 22 milioni di morti o forse molti di più vista la difficoltà di registare i morti in alcune parti del mondo). Si diffuse con maggior virulenza nei territori in cui non era mai comparsa una malattia influenzale: in USA moriva lo 0,5 % mentre a Samoa il 25% e interi villaggi di eschimesi in Alaska furono decimati. L’apice del contagio fu nel settembre del 1918: in Italia nel solo mese di settembre morirono 375 mila persone (Torino epicentro con 400 morti al giorno). Come oggi il numero di bare e luoghi di sepoltura non era sufficiente. Il lavoro già danneggiato dalla guerra si fermò. L’economia mondiale entrò in crisi. Il resto è storia.
Anche se il virus è universalmente presente in natura con bassi tassi di mutazione, l’esperienza lasciò radicato un timore di attacco batteriologico che si protrasse fino alla Seconda Guerra Mondiale. Lo sviluppo su entrambi i fronti di laboratori epidemiologici usati come arma contro il nemico fecero prendere coscienza del potere dei virus. Dal 1946 – estendendo una precedente organizzazione militare per il controllo della malaria – fu creato ad Atlanta il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) in stretta relazione con il timore post-bellico di un attacco biologico. Nel 1951, durante la Guerra Fredda, fu creato l’Epidemic Intelligence Service (Servizio segreto epidemiologico), una specie di CIA della medicina che formava medici e funzionari sotto il controllo del CDC assegnati a ospedali e dipartimenti sanitari americani per fronteggiare eventuali attacchi. Nel corso del XX secolo due epidemie su virus identificati impegnarono gli organismi mondiali sul rischio pandemia: l’H2N2 che uccise un migliaio di persone in Asia nel 1957 e l’H3N3 che nel 1968 colpì Hong Kong. Nel 1997 sempre Hong Kong si trovò a che fare con un nuovo virus influenzale di tipo H5N5 (influenza aviaria) che non corrispondeva a ceppi conosciuti. Nel novembre di quell’anno l’umanità si trovò nuovamente di fronte al rischio di rivivere la pandemia del 1918. L’episodio virale rimase circoscritto ma dimostrò il rischio che correva l’umanità.