Marinetti e Capri: una “pigiatura di cuore”
«Sono un futurista, nato ad Alessandria d’Egitto, di madre milanese, di padre vogherese, allattato da una nutrice di Kartum, quindi italianissimo senza italiana città nativa, ma mi sento napoletano per il mio sangue ardente e la mia gesticolazione eccessiva ma utile per figurare plasticamente la verbalizzazione del pensiero». Marinetti si innamorò di Capri a cinque anni da una piccola gouaches custodita in un album di vedute italiane con la copertina di legno. Era un’immagine notturna, illuminata da un chiarore diafano: quanto di più passatista ci possa essere per il poeta dell’assassino del chiaro di luna. Decenni più tardi, il padre del futurismo avrebbe trovato in quell’isola un luogo-mito in cui vivere la pace familiare e tessere azioni rivoluzionarie con un’ampia cerchia di sodali, camerati, futuristi, i compagni dei salotti parigini, delle scazzottate milanesi, delle trincee del Piave e dei caffè romani: Prampolini, Pagano, Depero, Casella, Bargaglia.
La passione di Marinetti per Capri non si può, però, comprendere senza il richiamo passionale di Napoli: «dolorante, allegra, coloratissima pigiatura di cuore». Già all’arrivo in stazione si dichiarava «vinto, sopraffatto, napoletano», abbandonato all’allegria che «schizza fuori dalle botteghe, radendo il selciato», dal sentimento che diventa Assoluto. Era la stessa voce di Napoli che lo chiamava, fatta di grida, di putipù e triccheballacche, un rumorismo amico, onomatopeico in grado di combattere i veleni del passatismo; satirico e surreale come quella «rigurgitante, ma strambamente muta, granaglia di facce/braccia che i ponti orizzonti di poppa stringono fra le labbra… Fatemi udire la vostra lacrimosa gioia di Mariaaaa Carmeeee comestaaaaiiii bentornaaaata» (Spiralando su Biancamano). Fu un colpo di fulmine scoccato il 20 aprile 1910 al Real Teatro Mercadante. Sul palco della serata futurista erano con lui Boccioni, Carrà, Palazzeschi, Russolo, Bonzagni. In una sala gremita all’inverosimile sedevano anche Croce, Gemito, Cifariello e un’adombrata Serao che su “Il Giorno” prometteva di non occuparsi mai più di futurismo. «Sul palcoscenico, dietro di noi – ricorda Marinetti – 160 carabinieri assistevano alla battaglia, immobili perché il questore aveva ordinato di lasciarci massacrare a tutt’agio dal pubblico. Ad un tratto, fra le parabole delle patate e della frutta fradice, io riuscii a prendere al volo un arancio. Lo sbucciai con la massima calma e cominciai a mangiarlo, a spicchi, lentamente. Allora avvenne il miracolo». Uno strano entusiasmo si propagò nella sala e i più feroci nemici si abbandonarono all’applauso. Due anni dopo, quando Napoli era la succursale italiana del varierà parigino, Marinetti e Francesco Cangiullo misero in scena eventi-spettacolo alle Gallerie Sprovieri.
Puri istanti di brutale realtà manipolata per sollecitare il pubblico all’azione/reazione. Apollinaire scrisse sul Paris-Journal: «Bagliori rossi, affumicamento generale, petardi che scoppiavano dappertutto, un razzo che, attraversando la sala, spaventò signore e signorine, urla, grida, risate». Sul “Mattino” Scarfoglio la chiamò “performance”, coniando il termine più utilizzato nell’arte del secondo Novecento. Allievo di Antonio Petito, il più grande Pulcinella di Napoli, Cangiullo perseguiva un teatro fatto per il pubblico e dal pubblico (“Non c’è un cane”, “Luce”, “Piedigrotta”). Era l’arte totale del carnevale napoletano che andava in scena con-fusa al teatro sintetico.
Fu così che Marinetti incontrò Capri.
Era il 1914. Pochi anni dopo, mentre con Bruno Corra pubblicava “L’isola dei baci” e Depero, ospite dello scrittore Gilbert Clavel ad Anacapri in tre mesi di ardore creativo dipingeva un’ottantina di quadri, l’avanguardia futurista aveva avvolto l’isola. Capri divenne “idea”, uno spazio incorruttibile da difendere nelle sue costruzioni bianche, nelle volte a botte, nelle sue stesse rocce. Marinetti fu sull’isola per l’ultima volta nel 1942, prima di partire volontario sul fronte russo: una foto sbiadita lo ritrae in piazzetta con Prampolini. Ricorderà quel mare alla moglie Benedetta nel freddo del lago di Como in quel 2 dicembre 1944 quando morì. Quell’isola azzurra, «gesto disperato di una rivolta geologica», rimase per sempre il suo luogo dell’anima.