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Lo Stato Islamico ha i mesi contati; ed il suo nemico principale sono le forze siriane di Assad.
Lo affermano due studi del Conflict Monitor di IHS Markit una delle società leader al mondo per analisi geopolitiche ed economiche.
La prima ricerca individua i soggetti più attivi nella controffensiva anti-Isis. La seconda, analizza la perdita di territorio occupato dall’Isis e la contrazione delle forme di sostentamento economico necessarie a condurre la guerra.

LA PRIMA RICERCA
La prima analisi IHS rivela che nell’ultimo anno, il vero nemico di Daesh sono state le forze governative siriane: “tra il primo aprile 2016 e il 31 marzo 2017, il 43% di tutti i combattimenti dello Stato Islamico in Siria è stato diretto contro le forze del presidente Assad e solo il 17% contro le Forze Democratiche Siriane (SDF) sostenute dagli Stati Uniti”. I restanti, dispersi negli scontri tra fazioni sunnite e gruppi jihadisti.
In pratica, i famosi “ribelli moderati” armati e finanziati dall’Occidente non sono considerati un nemico da Daesh.

Columb Strack, analista senior per il Medio Oriente di IHS Markit, ha dichiarato senza mezzi termini:

È una realtà sconveniente, ma qualsiasi azione americana per indebolire il governo siriano, aiuterà lo Stato islamico e ad altri gruppi jihadisti

 LA SECONDA RICERCA
La seconda analisi si sofferma sulla prossima prevedibile fine del Califfato causata da due evidenze:

  1. PERDITA DEL TERRITORIO: da Gennaio 2015 a Giugno 2017, Daesh ha perduto il 60% del territorio conquistato che oggi si attesta su 36 mila kmq; un’area grande più o meno quanto il Belgio.
  2. CALO INTROITI: le entrate dello Stato Islamico sono passate da 81 milioni di dollari nel secondo trimestre 2015 a 16 milioni di dollari nel secondo trimestre 2017, con un calo dell’80%, su tutte le attività finanziarie: contrabbando di petrolio, tassazioni, confische, altre attività illecite (come la vendita dei reperti archeologici dei siti occupati che, secondo l’ambasciatore iracheno all’ONU garantiva già nel 2015, 100 milioni di dollari l’anno).

Ovviamente, secondo gli analisti di IHS, “sono le perdite territoriali il principale fattore che contribuisce al tracollo economico dello Stato Islamico”.  Perdere il controllo di città altamente popolate come Mosul o aree ricche di petrolio come Raqqa e Homs non può non avere un “impatto particolarmente significativo sulla capacità del gruppo di generare entrate”.

D’altro canto, già nel 2014, una ricerca Thomas Reuters affermava che lo Stato Islamico era in grado di produrre entrate annue di 2,9 miliardi di dollari. Una cifra impressionante che spiega la sua forza militare ma anche mediatica ed organizzativa.

defeat-islamic-stateUN CROLLO IMMINENTE
Gli analisti prevedono ormai un crollo imminente forse già entro la fine dell’anno, grazie alla pressione intensa che siriani, iracheni e forze della coalizione stanno facendo. Probabilmente il progetto del Califfato si esaurirà con l’occupazione di qualche sacca urbana di resistenza riconquistabile dagli eserciti siriano e iracheno entro il 2018.

Questo ovviamente avrà dei contraccolpi a partire dall’intensificarsi degli attacchi terroristici all’estero; non solo in Europa ma anche nei paesi arabo-sunniti, qualora dovessero iniziare a prendere le distanze dall’Islam più radicale, (a partire dall’Arabia Saudita che l’Isis l’ha creato e la cui ideologia wahabita è alla base del jihadismo di Daesh).

Ma come si è potuti arrivare a questo veloce declino del progetto del Califfato islamico?

UN PASSO INDIETRO
Era il 29 Giugno del 2014 quando l’autoproclamato Califfo, Abū Bakr al-Baghdādī, annunciava la nascita dello Stato Islamico.
In quel momento oltre 45 mila kmq di territorio compresi tra Siria e Iraq, giacevano sotto il controllo di Daesh; un anno dopo sarebbero stati 95 mila (metà della Siria ed un terzo dell’Iraq) in un’avanzata che sembrava inarrestabile: Mosul, Tikrit, Samarra, Ramadi, Kobane, Aleppo, Homs, Palmira, centri strategici o città importanti, tutto sembrava capitolare di fronte alle empie orde mercenarie tafkire create nei laboratori dell’intelligence saudita e della Cia.

L’esercito siriano (uno dei più efficienti in Medio Oriente) non sembrava in grado di porre resistenza alla doppia offensiva; ad est di Daesh e a nord e a sud dei ribelli moderati (in realtà gruppi jihadisti come Al Nusra), armati dall’Occidente; i soldati di Assad soccombevano sul campo di battaglia (nonostante alcuni atti di eroismo leggendario dei suoi reparti) e sui media, con la mistificazione di “guerra civile” quella che altro non era che una guerra d’aggressione ad una nazione sovrana, utilizzando “per procura” Isis e ribelli moderati.

Dall’altro lato dello scenario, l’esercito iracheno non era in grado di porre una resistenza né di valore né di organizzazione militare e a nord, le milizie curde ben più motivate e coraggiose, potevano al massimo arginare l’espansione ma non segnare azioni di riconquista.

La coalizione internazionale messa in piedi da Obama era solo una finzione che consentiva all’America e ai suoi alleati di contribuire all’unico vero obiettivo: abbattere Assad e trasformare la Siria in una seconda Libia da spartirsi in aree di influenza con Turchia e Arabia Saudita. In altre parole, dietro la retorica della lotta al terrorismo, Washington utilizzava l’Isis per i suoi obiettivi geopolitici come abbiamo raccontato più volte (per esempio in questo articolo del Gennaio scorso)

Questo scenario, che sembrava irreversibile, s’interrompe nel settembre 2015 quando la Russia di Vladimir Putin decide di scendere in campo in aiuto del suo alleato storico siriano e a difesa dei propri interessi geopolitici. Obiettivo di Mosca: annientare lo Stato Islamico il cui consolidamento è una minaccia anche per l’intera Asia Centrale.

L’arrivo dei russi (e degli alleati iraniani) cambia repentinamente le sorti del conflitto. L’esercito siriano ora può riorganizzarsi, ottenere coperture aerea e missilistica, potenza di fuoco micidiale (ad esempio i temibili Kalibr che hanno disorientato la Nato) e nuovi mezzi dsyriani supporto militare mai sperimentati; sul terreno, le milizie Hezbollah e i reparti d’élite iraniani fanno la differenza.
In 5 mesi lo scenario cambia completamente, tanto che l’America di Obama è costretta ad iniziare la guerra sul serio a Daesh per evitare che la sua sconfitta diventi solo merito della Russia.

Con l’elezione di Donald Trump, la gestione della crisi siriana passa nelle mani totali del Pentagono; ed è il realismo dei militari (lo stesso che li spinse invano ad opporsi alla folle guerra in Libia voluta dalla Clinton, dall’élite neo-con e dalla Cia) a dettare l’agenda della nuova Casa Bianca.
Dietro l’apparente gioco delle parti (“Assad se ne deve andare”) Trump fa scelte concrete sulla Siria a partire dalla recente decisione di bloccare i finanziamenti ai “ribelli moderati” anti-Assad (di cui abbiamo dato notizia in tempi non sospetti).

Non è detta l’ultima parola, ma forse la crisi siriana ha superato il suo punto critico.


Su Twitter: @GiampaoloRossi

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