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Il racconto (si sa) ha avuto un calo di popolarità – e non parliamo di quello musicale che praticamente è sempre stato un fanalino di coda -. La musica, i suoi strumenti, i suoi protagonisti hanno ispirato poco quanti per necessità o professione o semplicamente per passare il tempo si sono cimentati e si cimentano con le parole. Eppure i soggetti non mancano. Dal pianoforte al flauto traverso, dalle arie barocche ai tempi irregolari di una sonata del Novecento, fino ad arrivare ai giorni nostri, con l’elettronica, la computer music e la rivisitazione in chiave moderna delle antiche polifonie. Un mondo coi suoi “abitanti” col quale si possono inventare delle storie. “Fuori Tono” continua – muovendosi non solo nell’era moderna di cui per sua scelta si occupa – a proporre periodicamente un racconto musicale, accompagnato da una colonna sonora e da un video che possono rappresentare il soggetto. Dopo “Una Rimini da sogno” (29/03/2011), ”Uno Stabat Mater che consola” (29/04/2011) e “Le paure di Rumolandia” (30/05/2011), “Suono I, Suono II, Suono III“ (30/12/2012) ecco“Non entrate in quell’auditorium…”.

In ospedale le sonate del Rinascimento non possono fare che bene: portano allegria. E infatti, in un presidio medico della città – tra i più avanzati anche sul piano dell’organizzazione – il dirigente, in accordo con il primario, aveva deciso così: nelle parti comuni e nelle camere a certe ore del giorno, e qualche volta pure di sera, ci dovevano essere in filodiffusione bagatelle, canzoni, gighe, per allietare gli ospiti e i loro parenti nei momenti di visita. Un’idea illuminata che, messa in pratica, si era guadagnata l’onore delle cronache, con tanto di interviste ai dirigenti dell’istituto. L’iniziativa, che tanto era piaciuta anche al governatore regionale, aveva fatto da modello per altri plessi del territorio.

Subito dopo a quella singolare attrazione, era persino nata una nuova figura professionale, quella del disc-jockey ospedaliero. Come a dire: che in epoche in cui non si sa bene dove sbattere la testa per trovare una collocazione, trovate del genere sono un’opportunità in più, per i giovani soprattutto. E si sa, da cosa nasce cosa. Così nei negozi intorno al nosocomio si cominciarono a vendere compilation musicali buone per il reparto di chirurgia, antologie da far ascoltare nella divisione di oculistica,  pediatria aveva il suo repertorio, ovviamente adatto ai bimbi che, con i motivetti nelle camerette, aspettavano meno angosciati l’arrivo delle mamme e dei papà. Poteva bastare.

C’è da aggiungere che la parola “progresso”, negli ospedali, è di casa, tanto per combattere le patologie del corpo umano quanto per migliorare l’assistenza; un campo, questo, che il professore in capo allo struttura teneva in altissima considerazione, meritevole a suo dire, di nuove idee e applicazioni. Un giorno dunque, per quello che aveva battezzato “il conforto musicale”, decise di fare realizzare qualcosa che, immediatamente, fu considerato dalla comunità dei camici bianchi, un vero e proprio “fiore all’occhiello”. Una sorta di schola cantorum, un luogo nel quale i degenti potevano socializzare ed esercitare la nobile arte del canto, attraverso la solidarietà del coro. Che musica, che messaggio, anche per i più gravi: insieme con la fede e la musica si vince!

Già dall’androne della parte centrale dell’edificio, confinante con la Cappella interna della Madonna del Rosario, si potevano udire le voci celestiali dei ricoverati. È qualcosa di insolito riuscire a trasformare un luogo di sofferenze, attraverso l’esercizio delle arti, in un ristoro anche per lo spirito e le anime. E a sentirne gli esiti, tra il pubblico non pochi si emozionavano. E ne avevano ben donde.

L’attività del coro dunque, andò avanti per un bel po’ di tempo. Un giorno sì e un giorno non c’erano le prove, e nelle occasioni religiose più importanti il corpo corale veniva dispiegato. Ai componenti dell’ensemble, per l’occasione, nelle camere ricevevano un pigiama speciale, lo stesso colore per tutti; una sorta di divisa di gala, a loro esclusivo uso. Il professore, una volta aveva persino accennato alla possibilità di un’incisione discografica, ma poi non se ne era più parlato. Forse la questione era solo rimandata, pensarono gli operati più velleitari.

Le cose andavano bene. Ma un certo punto qualcosa ruppe il ritmo di sempre. Niente di veramente preoccupante, ma all’occhio attento, una evidente stranezza.
Un giovane sacerdote in servizio presso la parrocchia interna, cominciò a notare qualche cosa di insolito. Ovvero, che il più delle volte i pazienti che venivano arruolati per le funzioni canore e quindi invitati a entrare nell’auditorium, la maggior parte delle volte erano persone che difficilmente qualcuno cercava: poveri senza parenti, gente senza una precisa identità, vecchi abbandonati e malati di mente. Una faccenda che al funzionario di Dio dava da pensare, visto che poi, questi cantori così “richiesti”, dopo aver partecipato a qualche prova musicale, non si vedevano più. Naturalmente chi lavorava lì – medici, infermieri e volontari – con il viavai quotidiano o non ci facevano caso o pensavano a dimissioni, a trasferimenti di reparto, oppure a spostamenti motivati dalle più diverse ragioni. Non ultima, il decesso, che insomma, in un ospedale è la normalità.

Ma il prete, al di là delle apparenze e delle prassi, volle vederci chiaro. Una domenica mattina, il giorno per eccellenza adatto ai cantici da offrire al Signore, si presentò alla porta del piccolo auditorium sanitario, con il preciso intento di chiarirsi le idee sul punto. Subito dopo la messa, ecco partire puntuali come gli svizzeri i canti: erano voci unite per salutare l’Altissimo, armoniose, come circondate dalla luce.

Il mini-teatro però, aveva una particolarità: organizzato per far ascoltare perfettamente le voci all’esterno, consentiva l’ingresso solo ai malati-cantori, che si esibivano nascosti dalle mura e apprezzati per la via indiretta di autoparlanti e diffusori sonori sistemati a regola d’arte. Le ragioni della regola imposta erano più d’una:  evitare inutili affollamenti all’interno, l’aria viziata dei posti troppo gremiti e garantire il massimo degli standard d’igiene. Fuori, il variegato pubblico, pronto ai buoni commenti e all’occorrenza alle ovazioni.

Il religioso, senza tante storie, decise di violare la regola del “vietato all’ingresso ai non addetti ai lavori”. Entrò nel teatro e nessuno ci fece particolare caso, il concerto continuò, accompagnato dai soliti applausi, il tutto ovviamente e rigorosamente lontano dagli occhi. La faccenda si chiuse così. Passarono i giorni nell’assoluta quiete ospedaliera. Come si dice “il solito”. Niente di nuovo, si diceva. Nessuna comunicazione, tranne un giorno in cui la direzione diffuse un messaggio audio, dal tono laconico e insignificante: “Cari pazienti, il nostro amato giovane padre ci ha lasciati per motivi personali. Lo sostituisce un valido collega, diamogli il benvenuto…”.

Un caro saluto a tutti, a chi va e a chi viene. E avanti così, tutti i giorni. L’auditorium, circondato a un’area di fascino e considerazione, ancora oggi prosegue con le sue attività. E questo ospedale resta sempre il migliore; valorizza i malati e non ha mai problemi per i ricoveri. Ha sempre posti liberi…
In allegato: “Gesualdo Considered as a Murderer” di Luca Francesconi