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Ci sono canzoni che, giorno dopo giorno, vengono mandate sull’Olimpo fino a diventare dei “classici” degni di stare nel bel mezzo di una programmazione dal taglio colto. E’ la volontà popolare che lo decide, il cosiddetto “successo di pubblico”. Già, gli ascoltatori – e non la critica e gli esperti a volte fin troppo severi – che dicono “questa roba vale poco o tanto”. Caso eclatante il brano <Bohemian Rhapsody> dei Queen, rilanciatissimo con il film dedicato allo scomparso front-man Freddie Mercury e al gruppo inglese, con incassi da paura. A dire il vero, il pezzo in questione già dal primo momento sbaragliò parecchi “dubbiosi” e si installò per settimane in cima alle classifiche. Con il tempo, poi, la composizione è diventata una pagina di culto. Che viene annoverata tra i risultati più eccellenti di quella stagione straordinaria e irripetibile che è stata quella Prog anni Settanta (in questo caso il rock contaminato dalla classica-operistica). Ebbene.

Sempre più festival e stagioni cosiddette serie, oggi come oggi, si “appropriano” della canzone in questione, quella di punta dell’album “A Night at the opera” uscito nel 1974, quarto album della band. Tra le suddette stagioni c’è anche quella del Teatro Dal Verme di Milano che il giorno di San Valentino – venerdì 14 febbraio – nell’ambito di una scaletta che comprende brani scritti da Mozart, Listz e Mendelssohn (ma ci sono anche autori per il cinema come Williams e Morricone), come penultima portata della serata “Rhapsody in Love” (dalle ore 21). Sulla scena il seguente cast: Giovanni Tenti il direttore, Ars Cantus-Voci Bianche e il Coro e Orchestra Sinfonici di 150 elementi.

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Che dire: se il mondo avesse dato retta alle prime impressioni sul pezzo – sia del discografico dell’epoca sia dei critici musicali <Bohemian Rhapsody> forse non sarebbe neppure uscita. Un caso questo fra i tanti a dire la verità. C’è chi dice, un po’ “malignamente” che i critici musicali arrivano sempre dopo; oppure storcono spesso la bocca come a dire “ma che cosa è questa cosa qua”. Poi vai nei Conservatori e quasi sottovoce gli addetti ai lavori di provenienza accademica ti confidano, “sì è un bellissimo pezzo, che Mercury era un genio”, cose di questo genere che magari pubblicamente non ammetterebbero mai. Ultima cosa per i puristi della musica cosiddetta colta: non si può giudicare i brani dei Queen come se fossero opere scritte da Mahler. Siamo su due pianeti diversi, molto diversi. L’arte può abitare ovunque, se arte prima poi viene riconosciuta.

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