In volo su Tokyo
Sono le otto del mattino del 31 maggio 1920, nuvole basse avvolte da una fitta pioggia oscurano la pista d’atterraggio allestita nel parco Yoyogi di Tokyo.
Sul verde del prato ondeggiano 200 mila persone in attesa di un segno dall’orizzonte; sotto gli ombrelli, una selva di bombette, cilindri, sete giapponesi e tweed inglesi in un disordinato miscuglio di oriente ed occidente. Un biplano appare improvviso, strappando le nubi a poche decine di metri dal suolo. Banzai Italia! Il grido esplode potente all’unisono. Le eliche continuano a girare, mentre il pilota venticinquenne Arturo Ferrarin e il motorista diciannovenne Gino Cappannini scendono alzando le braccia in segno di giubilo, sistemandosi le sciarpe dentro i colletti inzuppati.
Il 14 febbraio, si erano alzati in volo come staffette del raid Roma-Tokyo voluto da Gabriele d’Annunzio, dalle officine Ansaldo e dal governo Nitti per consolidare i rapporti commerciali. Su 11 equipaggi decollati da Centocelle solo gli SVA di Ferrarin e Masiero avevano tagliato il traguardo dopo 16 mila km dal Mediterraneo al Pacifico: Salonicco, Smirne, Aleppo, Baghdad, poi a Delhi, Calcutta, Canton, Pechino, Seul, Osaka fino a Tokio.
Il trionfo mediatico con cui il raid fu seguito dalla stampa nipponica riecheggiava il coronamento di lontani rapporti diplomatici con l’Oriente. Quando nel 1896, con la restaurazione Meiji, il Giappone si era aperto al mondo, alcune comunità italiane erano già nel paese da decenni a garantire l’approvvigionamento del corallo e dei bachi da seta. Durante il controllo dello Shogun, i diplomatici italiani sapevano districarsi nei rapporti di forza dei clan incoraggiando gli interessi commerciali. Il Giappone era pronto a bruciare ogni tappa della modernità succhiandola dall’occidente come un frutto maturo.
Dal Novecento tutto cambia. Nei cantieri navali di Genova gli antichi samurai, ora generali della marina militare, negoziano un contratto di acquisto di due corazzate italiane (Nisshin e Kasuga) che nell’agosto del 1905 sono a Tsushima pronte per la battaglia decisiva con la Russia. L‘ammiraglio Togo, vincitore a Port Arthur, distrugge la flotta dello Zar. Così, Tsushima diventa simbolo: non occorre abiurare la propria identità per ottenere dignità. Emilio Salgari, firmandosi Guido Altieri, pubblica con successo L’eroina di Port Arthur, Luigi Barzini, corrispondente di guerra, si scaglia dalle colonne del Corriere della Sera contro chi rende caricaturale lo sforzo di modernizzazione del Giappone. Nelle università nipponiche, gli interventisti e i giovani professori si proclamano stufi di correre dietro le belle apparenze dell’occidente, mentre le ‘pre-potenze’ occidentali si dividono il globo secondo i loro interessi e imponendo una visione della Storia a loro misura.
Con la fine della Grande Guerra il Giappone, ha scoperto che vincere non significa sempre essere vincitori. Neppure l’orgoglio della vittoria riesce a far superare l’esperienza di un trattato di pace deludente. Anche l’Italia, sentendosi in Europa come un vaso di coccio tra vasi di ferro, guarda con attenzione al fermento giapponese. Il Manifesto futurista è inviato allo scrittore Mori Ogai e negli 11 punti di Marinetti gli intellettuali nipponici cercano l’occasione per liberarsi dal giogo dei canoni occidentali e della loro rigida tradizione.
In Italia, ovunque si parli di Giappone, c’è Harukichi Shimoi docente all’Università Orientale di Napoli e legame estetico e spirituale tra i due paesi. La sua presenza nei circoli letterari partenopei e l’amicizia con Gherardo Marone, fondatore della rivista La Diana, influenzeranno la connessione tra i due paesi, mentre i poeti italiani (Ungaretti, Saba, Onofri, Jenco) subiranno l’infatuazione per la purezza essenziale della poesia giapponese tradotta da Shimoi.
Sul finire dell’estate del 1918 è a Padova nelle retrovie, dove scrive articoli di guerra per il Corriere del Mezzogiorno. Vuole combattere,ma quel piccolo uomo miope con gli occhi a mandorla e dal forte accento napoletano non convince gli ufficiali. Tanto fa che riesce ad ottenere il permesso di raggiungere le trincee arruolatosi volontario tra gli Arditi, dove legge L’arte della guerra di Lao Tsu ai commilitoni.
Nel 1918 a Venezia, grazie ad Antonio Beltramelli, Shimoi riesce a incontrare d’Annunzio, il suo mito di poeta d’azione, infondendo nel Vate la curiosità di raggiungere in volo quel Sol Levante in piena trasformazione a fianco di Natale Palli, come nel volo su Vienna. È facile convincere il Vate. In un raid a tappe avrebbe attraversato l’Asia sui biplani Ansaldo degli ingegneri Savoia e Verduzio. D’Annunzio comincia a parlare in pubblico del raid e Palli disegna le rotte e riesce a negoziare con Ansaldo il supporto tecnico ed economico all’impresa. Anche il governo Nitti fa di tutto per favorire l’operazione, desiderosodi allontanare il Vate dall’Italia per far sbollire le crescenti tensioni sull’argomento dalmata. Solo la morte di Palli e i progetti dannunziani su Fiume faranno sfumare nel Vate il desiderio di Sol Levante.
Il raid comunque si farà, anche se il mondo sta cambiando. Gli aerei nel 1920 sono in volo, ma in Giappone non è solo la terra a tremare: l’Inghilterra scioglie la sua alleanza con il Sol Levante, i clan ripiegano le bandiere e il potere in redingote è costretto a trattare con gli americani che pretendono una parte della ricca torta cinese. La guerra dal campo di battaglia si sposta al mercato finanziario. «Bisogna avere del miele di nido di rondini sulle palpebre – scriveva il corrispondente francese Albert Londres – per non accorgersi che di mercato commerciale ormai resta solo la Cina. Appena mettete piede a Shangai vi mostreranno il Fiume Giallo e i due accampamenti sulle sue sponde: la Standard-Oil e la Royal-Dutch con i loro serbatoi che sembrano due torri di Babele in ferro. Le cisterne sono ricolme di cannoni, viscere palpitanti dei due untuosi giganti. E mentre intorno ci troviamo popoli spenti e assertivi, il Giappone è desto».