Virus

Virus

     Le notizie, rimbalzate in questi mesi, su un possibile incidente di laboratorio come causa scatenante dell’attuale pandemia rimandano, purtroppo, a casi storici ben noti.

L’uso di virus per indebolire il nemico, si sa, è una pratica antica. La peste bubbonica, ad esempio, si affacciò in occidente nel 1347, quando i tartari, durante l’assedio dell’emporio genovese di Caffa in Crimea, lanciarono cadaveri di appestati per fermare l’avanzata mercantile occidentale. E la stessa macabra strategia di contagio fu utilizzata, nel 1763, dal comandante delle forze britanniche nel nord America, Jeffrey Amherst, che fece diffondere il vaiolo tra i nativi dell’Ohio per conquistare la regione.

Quando, un secolo dopo, Pasteur e Koch dimostrarono al mondo l’esistenza dei batteri, l’uso fu subito all’attenzione dei servizi segreti internazionali. Erano anni in cui l’1% della popolazione occidentale moriva di polmonite e tubercolosi e la penicillina, scoperta da Fleming nel 1928, non sarebbe stata utilizzabile fino al 1940.

Intanto, quando la Grande Guerra si avviava alla conclusione, le truppe alleate confiscarono ai tedeschi in Renania ceppi di colture batteriologiche (pseudonomas e antrace), venendo così a sapere che producevano batteri da infiltrare nel sistema commerciale trastati neutrali e Francia contaminando il bestiame diretto al fronte(da soma o per uso alimentare) per indebolire, in un colpo solo, approvvigionamenti e infrastrutture. Era un sistema avviato da tempo, tanto da far ipotizzare che l’influenza spagnola (nel 1918 ebbe il focolaio europeo nella neutrale Spagna) si fosse sviluppataproprio a seguito di questi esperimenti.

Di certo il progetto tedesco creò allarme, tanto che, nel 1925, il Protocollo di Ginevra proibì l’impiego di sostanze chimiche e biologiche per finalità belliche: un lodevole tentativo che si rivelòperò, impossibile da perseguire. La Manciuria, infatti, nel 1932 fusede della segreta Unità 731, smantellata dagli americani nel 1945. L’area di ricerca batteriologica giapponese, alias centro di purificazione delle acque, si estendeva su 6 km2 con 3 mila tecnici che coltivavano e stoccavano batteri, come quello della peste bubbonica, sperimentato con dispersione aerea di pulci contaminate su alcuni centri abitati cinesi.

Di certo, durante la guerra, la corsa alle armi batteriologiche si sviluppò su entrambi i fronti. Solo l’Inghilterra abbandonò prematuramente il progetto dopo averlo testato sull’isola di Gruinard in Scozia

Contaminazione dell’isola di Gruinar, Scozia

che, caricata di spore resistenti, fu messa in quarantena fino al 1986. Gli USA, invece, continuarono lo studio dell’antrace nella base di Fort Detrick nel Meryland dal 1942 fino al 1969, quando, su pressioni ambientaliste, Nixon dichiarò la chiusura del programma batteriologico. Una stima pubblicatadell’OMS definì che una bomba batteriologica di 50 kg lanciata su una città di un milione di abitanti aveva un raggio di 10 km e poteva essere inalata da 150 mila persone causando 36 mila morti per complicazioni polmonari. L’impressione sociale fu grande e, nel 1972, oltre cento nazioni siglarono la condanna delle armi chimiche. Nel 1979 apparvero strani casi di antrace nella città russa di Sverdlovsk e, per sei settimane, gli ospedali registraronouna letalità dell’80%. Il governo Carter accusò l’URSS di manipolazione batteriologica, ma l’autorità sovietica negò. Solo nel 1992, Boris Eltsin ammise l’incidente, avvenuto durante la manipolazione di antrace nella base batteriologica Aralsk-7, attiva dagli anni Cinquanta su un’isola del lago Aral e sconosciuta al mondo.

Le sabbie del Lago d’Aral sono un deposito di antrace

Le sabbie del Lago d’Aral sono un deposito di antrace

Con la caduta dell’URSS i laboratori batteriologici furono chiusi, anche se il know-how sovietico fu assorbito da altri mercati, tanto che ancor oggi si suppone che almeno 17 nazioni nel mondo, soprattutto asiatiche, continuino in segreto gliesperimenti vietati dalle norme internazionali.

Tante, forse troppe, sono le situazioni più o meno latenti che sommano i remoti rischi di attacchi batteriologici ai possibiliincidenti di laboratorio, alle contaminazioni involontarie, all’errore umano.  Nel 2018, quando ancora non immaginavamo di incappare nel Covid-19, l’allarme internazionale era concentrato sul pericolo vaiolo, debellato nel 1977 dopo una vaccinazione globale ma ancora diffuso nei paesi poveri e, soprattutto,conservato in due laboratori mondiali, riconosciuti dall’OMS,attivi ad Atlanta in USA e a Mosca. Si può comprendere come il tema batteriologico, peraltro top-secret, sia ben lontano dall’essere preventivato. Frattanto, non siamo ancora usciti dal coronavirus eancora da oriente appare un altro spettro che preoccupa l’ambito sanitario internazionale. A Hong Kong sono stati acclarati casi di epatite-E, una mutazione virale trasmissibile dai topi all’uomo attraverso l’acqua, che fa temere il rischio di una nuova pandemia.

Cosa succederà lo scopriremo solo vivendo. Una cosa, però, è certa: il XXI secolo ci ha messo di fronte alla fragilità della Globalizzazione, una fiaccola di pseudoprogresso che, come già avvenuto per l’eredità della Modernità del Secolo Breve, dimostra di avere un lato oscuro difficile da prevedere e da controllare.