La salute è un fattore importante della vita, nulla questio. Eppure è anche vero che la salute si conserva con le cure e con la possibilità economica di accedervi. Anche in epoca di pandemia-sanitaria non deve passare in secondo piano la grave pandemia-economica che ci attanaglia. Nella pandemia si muore, ma senza lavoro non si vive.

Rileggendo con il senno del poi i dati e la storia di quest’anno dannato, pare non si ponga l’attenzione dovuta a questo punto determinante. Dopo un lockdown di tre mesi, un’estate passata a cacciar farfalle e una seconda pandemia che ci mette di fronte alle alternative di una chiusura natalizia (che sarebbe come tener giù la testa a uno che sta affogando) o di avere gli ospedali in sofferenza, tutto quello che si sta facendo è mettere pezze qua e là tentando esclusivamente di temporeggiare. Ormai non si tratta di un sospetto ma di una certezza: condivisa da chi ne sa, come dall’uomo della strada.

Sarebbe il momento di fare una seria riflessione sul lavoro in questa Italia bipolare, divisa tra pubblico impiego ipersalvaguardato e tutto il resto che se la deve cavare: senza via di mezzo tra assistenzialismo e il “chi ti conosce”.

Basta unire i dati al buon senso per capire quello che è sotto gli occhi di tutti. Mentre, in tre mesi di lockdown, facevamo da ‘sperimentatori’ sociali della pandemia per i paesi occidentali, gli altri continuavano le produzioni (come la Germania) facendo dumping sulle imprese italiane e conquistando quota di mercato ai danni di un’Italia bloccata. Facciamo il caso di una azienda italiana che produce una merce fatta anche in altri paesi europei: fermando il lavoro ha dovuto ritardare le consegne, così, i suoi clienti in USA o in Cina hanno cambiato fornitore dirigendo le richieste a quelle aziende europee che, avendo continuato a produrre, hanno conquistato territorio e clienti soprattutto a discapito della nostra media impresa.

Quando certe paure sembravano sotto controllo, l’errore più grande è stato non approfittare di quei mesi per recuperare terreno in vista alla inevitabile e preannunciata ricaduta autunnale che puntualmente è arrivata. Le misure palliative messe in atto dal Governo (cassa integrazione in primis) come una sorta di metadone sociale non hanno reso pienamente percepibile il grave disagio. Resta solo una domanda a cui nessuno risponde: lockdown a parte, qual è l’exit strategy che si sta proponendo ovvero come se ne vuole uscire? Qual è il costo in spesa pubblica e investimenti che il sistema-paese dovrà prevedere? Misure spot e proclami a colpi di dpcm possono veramente risolvere il problema o lo stanno solo rinviando Paradossalmente mentre siamo senza vincoli di stabilità e con un’Europa – per la prima volta in 50 anni – disponibile a dare miliardi, saremo in grado di prenderli in tempo? E come li utilizzeremo in una programmazione efficiente e duratura. Non c’è risposta. La sensazione è che si stia rinviando il problema.

Ci sono, invece, i dati di fatto. La media impresa non potendo licenziare ha fatto ricorso alle misure palliative:  ha approfittato (per quanto possibile con il modello proposto) delle moratorie sui crediti e di una garanzia omnibus della Cassa depositi e prestiti che, in teoria, offre credito e allungamento delle scadenze (peccato che lo fa anche a chi, self-standing, non se lo meriterebbe a prescindere dal covid). Ma appena verranno tolte tutte queste stampelle su cui si regge la finzione che accadrà? Il dato crudo di tutti gli indicatori è che siamo a meno 11% di PIL spalmato sui primi tre mesi che sono viaggiati a regime ordinario, il che vuol dire, guardando l’impatto sulle aziende in termini di fatturato/covid, che il numero reale è di meno 20/25% e spesso questi dati emergono in situazioni con costi non comprimibili. Quindi, anche se qualcuno ha potuto mitigare il problema ci sono anche molte imprese che non hanno potuto farlo e, a fronte del calo di fatturato del 25%, hanno un calo EBITDA (ovvero del margine di operativo lordo – ricavi meno costi) che sfiora in certi casi il 50%. Sono dati brutti. In questi termini si comprende il perché, malgrado la chiusura di molte attività, l’attuale norma per i termini dei licenziamenti non viene abolita, ma prorogata: perché ci si troverebbe con un tasso di disoccupazione, se non è raddoppiato, sicuramente aumentato di 10/15 punti percentuali nell’arco di pochissimi mesi creando una’instabilità sociale a livello rosso.

Questi semplici dati spiegano anche il motivo di una apparente dimenticanza dello Stato  nei confronti della piccola media impresa ancora tenuta a bada dalle misure straordinarie. L’albergatore o il ristoratore che non ha avuto flessibilità sopravvive facendo ricorso alla cassa integrazione tenendo i dipendenti a casa finché glieli paga lo Stato e attende tempi migliori. Ma quanto durerà?

Osservando i dati secchi (escludendo il pubblico impiego) l’attuale tasso di disoccupazione (meno del 10%) è drogato ed è tenuto in piedi, non dai contributi all’impresa, ma dal metadone dei sussidi (cassa integrazione e reddito di cittadinanza). Facciamo un esempio teorico. Invece di spingere un’impresa che produce autobus a tenere chiuse le linee di produzione con la cassa integrazione, lo Stato – con i soldi che comunque avrebbe dato – avrebbe ritirato l’invenduto  e magari rinnovato il vecchio e inquinante parco mezzi del Comune di Roma. In più, se lo Stato non spinge l’azienda a essere efficiente questa sarà maggiormente predisposta a ‘buttare la palla in tribuna”, ovvero, se verrà data la cassa integrazione per sei mesi l’azienda si porrà il problema tra sei mesi e un giorno. Gli alberghi sono un esempio eclatante. Molti, specie quelli di alta gamma in luoghi turistici,  piuttosto di avere un calo del 20/30%, di clienti hanno deciso di rimanere chiusi, scaricando il personale che avrebbero dovuto licenziare sulla cassa integrazione. Quanto può durare? E, soprattutto, quanto danno può fare?

Le stime da cui ottenere qualche risposta cambiano continuamente, anche se qualche dato ogni tanto fa capolino. Gli analisti (come Giavazzi e Cottarelli) hanno più volte scritto che calcolando l’impatto di queste misure sulla spesa pubblica si porta l’Italia ad avere un debito pro-capite di 53 mila euro. Significa che ciascuno di noi diventerà debitore del sistema finanziario europeo per 53 mila euro. Non è mica poco! Oltre a perdere il lavoro e a non trovare lavoro si mette al muro una generazione. Un ragazzo neolaureato che si affaccia al mondo del lavoro ha già un mutuo sulle spalle e senza neppure aver comprato casa. Si acuirà il tema del conflitto generazionale e i giovani si troveranno in un mondo precario in cui sarà impossibile pianificare una vita e senza quel paracadute familiare che sta salvando la generazione precedente. La pandemia sanitaria è certo un dramma immediato e cocente ma la pandemia economica quanti feriti lascerà a terra in un futuro non così lontano?

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