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Il racconto (si sa) ha avuto un calo di popolarità – e non parliamo di quello musicale che praticamente è sempre stato un fanalino di coda -. La musica, i suoi strumenti, i suoi protagonisti hanno ispirato poco quanti per necessità o professione o semplicamente per passare il tempo si sono cimentati e si cimentano con le parole. Eppure i soggetti non mancano. Dal pianoforte al flauto traverso, dalle arie barocche ai tempi irregolari di una sonata del Novecento, fino ad arrivare ai giorni nostri, con l’elettronica, la computer music e la rivisitazione in chiave moderna delle antiche polifonie. Un mondo coi suoi “abitanti” col quale si possono inventare delle storie. “Fuori Tono” continua – muovendosi non solo nell’era moderna di cui per sua scelta si occupa – a proporre come ultimo aggiornamento del mese proprio un racconto musicale, accompagnato da una colonna sonora e da un video che possono ben rappresentare il soggetto. Dopo il primo, “Una Rimini da sogno” (29/03/2011), ecco il secondo della serie: “Il giallo di Pergolesi”

“Mettiti qui accanto a me cara e stai a sentire quest’aria divina”. Da malato il professore era più gentile. Del resto alla sua età qualche cosa viene. Il suo disturbo era andare in apnea, quasi ogni notte, nel mare delle sue lenzuola. Non era mai riuscito a morire per via della mascherina dell’ossigeno che il medico gli aveva ordinato di indossare; l’ultima volta, prima di metterla, invitò con garbo la sua consorte ad adagiarsi accanto a sé, per il rituale di cui spesso, prima di spegner la luce, nella loro solitudine erano protagonisti. Prima di dire le ultime preghiere insieme, il Padre nostro e le Ave Maria, ascoltare a letto il GRAN CONCERTO!

Marito e moglie “d’argento” sin da ragazzini amavano la musica, in particolar modo quella “sacra applicata al belcanto”; definizione da lui coniata. Lei, che una vocazione artistica proprio non possedeva, a un certo punto aveva intrapreso la strada dell’insegnamento, nei collegi femminili; lui, che pure non aveva brillato nella composizione e nell’interpretazione strumentale, s’era invece dato alla critica dell’opera lirica; che ormai però, negli anni della pensione in cui si era “installato” da un po’, non abbracciava più con l’interesse dei primi tempi; al contrario era per il genere sacro: appunto, la sua nuova passione.

“Le voci liriche…”, di tanto in tanto accennava con teatralità da solo, facendo scemare le ultime parole, come a dire: “Che barba quegli acuti, quelle Callas, quei Domingo, quei Carreras”. “Le voci liriche”, lei sibilava rigirandosi nel letto: “Benedizioni di Dio!!!”, ripeteva la donna come per tentare di fuggire dallo stra-potere di quel marito, anche musicalmente, ingombrante. Follia? Ribellione? I due, dopo una vita insieme, mal si sopportavano. Noia. All’improvviso rumore. Nel volgere di istanti scoppiò un temporale che diventò inaudito; ai coniugi sembrava che quel piccolo uragano locale, volesse comunicare la sua rabbia agli uomini, a quelli insensibili alla natura, alla sua bellezza, alle sue delicatezze. Un caos che suggerì un cambiamento di rotta…

“Cara, visti questi rovesci, non vorresti ascoltare invece la Tempesta di Beethoven?”, propose alla sua sinistra l’ex maestro. Ci fu una lunga pausa, quantificabile in un pentagramma intero. Non ricevette riposta: lei era appoggiata su cuscini, con una maschera bianca senza fessure, un’immagine teatrale;  misteriosa; chissà che cosa voleva dire al di là di una stramba giustificazione: “Con questa io ci prendo i raggi della luna…”, sussurrava la donna, in compagnia delle voci emerse dal nulla sostenute dagli archi.

“Lo Stabat Mater, lo Stabat Mater!!!”, si mise a saltare lui seduto sul letto; un terremoto nella stanza e per i vicini di sotto e per tutta la stanza, con il letto che quasi quasi, nonostante il ritmo solenne di quelle notte, si metteva a danzare indiavolato. “Pergolesi o Kodaly?”, lei lo seguii domandandosi in quell’assurdo entusiasmo, come due bimbi a rallegrarsi per quei canti esplosi dalla tromba del vecchio riproduttore musicale in camera; canti di compassione, per nulla dunque adatti all’uragano là fuori.

Stabat Mater”, basta un accenno ed è subito preghiera. “La madre dolorosa stava”, recitava dietro alle note un so personale rosario, il professore cuffietta in testa – che tenerezza – sovrapponendosi un po’ a quel cordoglio musicale: una meditazione sulle sofferenze di Maria, la madre di Gesù. “Ahhhh”, “Ahhhh”, “Ahhhh”, le bocche dei cantori giocavano tristi a rincorrersi, fontane di bassi emergevano, insieme a scalate orchestrali del Seicento, piccoli miracoli dell’Uomo ispirato nel dare una voce all’Altissimo.

Lo Stabat andò per tutta la notte, rimbombava, in quella magica stanza da letto che sfidava le leggi dell’acustica. Le ore passavano rallentando: come in un sortilegio quel cantico di disperazione continuava a riproporsi; come un disco rotto. Senza pause. Ecco il mattino che nelle sue prime ore aveva spento i lampi, asciugato i marciapiedi, riportato il sole. Una pallida giornata d’inverno.

Alla porta dell’appartamento del professore e di sua moglie si presentò e bussò la portinaia che era solita portare alla coppia il giornale e delle brioche per “mousieur le musiciens” (lei era francese, in Italia per un amore poi finito). Niente dall’alloggio, non un segnale. Non quel passeggiare che tutti fanno per muoversi dal salotto alla porta d’ingresso. L’allarme lanciato dalla ragazza di Lione fece accorrere i soccorsi.Il professore e sua moglie non c’erano più. Spariti, ma non del tutto (solo nell’anima). I corpi presenti, occhi sbarrati, come a fissare qualche cosa di trasparente, impalpabile. Un sorriso, sulle labra di entrambi, forse beatitudine, ma il gelo nelle membra. Lo “Stabat Mater” lo staccò un agente di polizia. Ancora girava, doloroso.

“Che strana morte”, non pochi nel condominio commentarono con il brivido addosso. “Giusta morte per loro”, disse in chiesa il parroco durante i funerali. “Amavano così la musica…”, commentava il negoziante che procurava al professore le incisioni rare. In ospedale nemmeno le autopsie chiarirono il fenomeno. Si parlava di “uscita dal corpo“, ma non era scientifico; un’uscita “per seguire una luce”, azzardò una veggente. “Pergolesi consola, non uccide”, con le lacrime agli occhi una giovane suora.
In allegato: “Stabat Mater” di Pergolesi