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Il racconto (si sa) ha avuto un calo di popolarità – e non parliamo di quello musicale che praticamente è sempre stato un fanalino di coda -. La musica, i suoi strumenti, i suoi protagonisti hanno ispirato poco quanti per necessità o professione o semplicamente per passare il tempo si sono cimentati e si cimentano con le parole. Eppure i soggetti non mancano. Dal pianoforte al flauto traverso, dalle arie barocche ai tempi irregolari di una sonata del Novecento, fino ad arrivare ai giorni nostri, con l’elettronica, la computer music e la rivisitazione in chiave moderna delle antiche polifonie. Un mondo coi suoi “abitanti” col quale si possono inventare delle storie. “Fuori Tono” continua – muovendosi non solo nell’era moderna di cui per sua scelta si occupa – a proporre periodicamente un racconto musicale, accompagnato da una colonna sonora e da un video che possono rappresentare il soggetto. Dopo “Una Rimini da sogno” (29/03/2011), ”Uno Stabat Mater che consola” (29/04/2011) e “Le paure di Rumolandia” (30/05/2011), “Suono I, Suono II, Suono III“ (30/12/2012), “Non entrate in quell’auditorium…” (28/01/2013) e “Il mistero di San Crispino” (27/02/2013) e “Le sorelle Lucerna” (29/04/2013) e “Belfagor alla Scala”.

Dal palazzo di fronte arrivava un’Ave Maria del Seicento con la voce lirica di Ewa Izykowska. Qualcuno in strada ignaro della tragedia si domandava: «Questo struggimento in note non sarà del Caccini?». Da un’altra parte ma molto vicino c’era una finestra spalancata; dentro a un alloggio degli uccelli serrati sul trespolo, e cinque piani più sotto un corpo di donna sdraiato nel sangue. «A che ora è precipitata questa bellezza dotto’?», fece l’agente al medico ritornato in casa dopo esser stato giù. «Venerdì 23 marzo 1990 via Circo. Ora del decesso quasi le 23. Causa, sospetto omicidio». Il frontespizio del rapporto di polizia diceva, ma non tutto: prima di morire la ragazza forse aveva pregato…Sicuramente rapida.

Di Iasmina,venticinquenne ungherese, le donne anziane del luogo ricordarono le evoluzioni da soprano, gli occhi, la grazia del passo; i giovani maschi più l’anima e la risata… «Dotto’, dottore, è la solita storia. Questo qua dice che non c’entra niente. Ha sui quarant’anni, dotto’ l’abbiamo fermato…». Così il poliziotto al commissario il giorno della cattura. Il dirimpettaio della vittima, un vetraio malato di nervi di nome Duilio, fu accusato del delitto e portato via in manette tra le urla disperate. «Ecco il movente, dotto’…», sciorinò il gendarme. Con lei litigava ormai troppo spesso per avversione; «un sentimento pazzo!», non aveva dubbi la portinaia. Agli inquirenti l’aveva spiegato dicendo tutto per filo e per segno: «Con quei gorgheggi, disgraziata! Quei maledetti con i loro cantici sciancati, que horror; l’opera dei “Pagliacci”, mio Dio, cinguettano per ore!». Leoncavallo, che barba!

Nel pomeriggio in cui i pennuti-compagni di Iasmina venivano assegnati nel caseggiato dell’assassinio, qualcuno ascoltava uno «Stabat mater». Il giorno dopo un tizio si presentò nella caserma in zona Ticinese, dove gli uccelli erano stati rinchiusi. Sulla trentina, oboista di provincia, arrivato in città in cerca di qualcosa tipo ingaggi e fortuna, Fausto confessò al funzionario di avere avuto un legame con Iasmina; dicasi «affettuoso», era stato il vicino di casa ma poi…, la frequentava; aveva conosciuto anche i suoi lassù a Budapest: «Mi-solsi-re-fa lipossotenereio…». Chiiiiiii??? Checosaaaaaaa??? Quasi gli agenti non credevano, poi si convinsero che poteva essere vero e lo accontentarono pur di «liberarsi di quelle bestie». I volatili erano rimasti per un giorno dietro alle sbarre accanto agli uffici e avevano sporcato e dato grattacapi un po’ a tutti. «Dotto’ quella dama era strana, no dotto’?», ancora l’agente.

Già, eccentrica. Più che altro Iasmina del bel canto e della sinfonia era patita. Tanto che aveva chiamato i suoi amici con le note musicali che occupano le righe del pentagramma: mi-sol-si-re-fa per l’appunto. Per divertirsi la giovane ne avrebbe voluti prendere altri, di piumati, e a Fausto aveva confidato che avrebbero avuto i nomi delle note collocate negli spazi tra i righi: si sarebbero chiamati fa-la-domi; è vero, a cose fatte ci sarebbero stati due «fa», ma c’era già una soluzione… magari i due esseri li avrebbe potuti distinguere proprio col canto, prolungando la durata della sua voce: «Faa!» oppure «faaaaa!». Fausto prese le gabbie con i pennuti e scappò verso casa. No, non sapeva se aveva fatto la cosa giusta oppure no, perché quegli esseri non gli erano piaciuti, mai andati; «simpatici come cicisbei». Teste frenetiche, viste gelide, becchi acuminati, fare da cospiratori, aggruppati… Sì, era stato un errore prenderseli a carico in quel periodo. Meglio dire un azzardo. L’oboista si alleggerì di questi pesi in un caffé snack. A un amico confidò di quel che stava attraversando davanti a un bicchiere e mitragliava previsioni senza luce, riferendosi a un provino che doveva sostenere da lì a poco: «Quelli neanche mi staranno a sentire perché i giochi sai, son fatti; con i raccomandati, i fortunati, i parenti, i malefici, i furbi. Guarda e pensa che hanno bocciato anche “quello là!” che sta appeso». Dalle pareti del locale dominava con i suoi baffi l’uomo delle campagne di Roncole e delle «ali dorate». Non sarà stato Verdi? Fausto, che per il suo volto mal concepito dalla natura veniva sbeffeggiato dagli amici con un «sei Belfagor della Scala…», trenta ore più tardi si presentò nel Teatro per la prova. Un collega che curiosò, che vide e che sentì più tardi gli confidò di una commissione fulminata dal suo «maglione color “giallo polentone”, una lana grezza spessa così…». Qualche trombone-giudice sentenziò che «aspirare a un contratto in quello stato beh, insomma…». L’esecuzione fu un fiasco a partire dalla scelta dello strumento; l’oboe barocco sbagliato per il genere! Musica da banda, non un granché per le somme orecchie di quel tempio. Conclusione, dissero i direttori: «Avanti un altro!».

Fausto, con poca pecunia in tasca raccattata suonando ai matrimoni poverelli e nei pub di quart’ordine, trasformò la sua quotidianità in un’acrobazia etilica; spesso lui stava sui Navigli, dove per andar via dalla dimora vicina a quella di Iasmina aveva trovato un monolocale, più che altro un giaciglio. Con il passare dei giorni però più che fuori stava all’intero delle mura in compagnia degli animali piombatigli addosso; bottiglie da corteggiare, barattoli da violentare, sigarette da sbranare. I pennuti mi-sol-si-re-fa allineati, bellicosi sul trespolo; facevano baccano tra loro, isolati dal creato e bastardi verso il prossimo. Il novello padrone li interpellava e in risposta riceveva il più compatto dei silenzi. Lo scrutavano… Fausto metteva a fuoco l’inimicizia. E già provato dalla sfortuna i brividi lo assalivano come insetti; e in quei giorni poi, scarseggiava di forze e la sua testa sembrava avere le ali e volar via. Un anziano passò nel suo alloggio per vedere se quelli erano vivi o morti e prima di andarsene si fermò per ammonirli, col batti cuore però: «Voi bestiacce, uccelli del male augurio, buoni buoni…».

L’oboista, l’ultima notte nel suo quartiere, dopo aver bevuto e bisticciato e non pagato un oste sparì in una strada che bazzicava a cercar un po’ di spiritualità. «A dotto’, non è quello della cantante del melodramma, la pischella ammazzata dal matto…». Gli uomini in divisa non sapevano che cosa riferire alla pia Adele, sorella di Fausto, che il giorno dopo la misteriosa eclisse del fratello, sapendo dei suoi improvvisi smarrimenti di memoria, aveva fatto denunzia subito, per una volta senza ricorrere a invocazioni. Delle indagini erano state fatte ma di lui, il «Belfagor della Scala», soltanto qualche rada segnalazione al telefono dei familiari. Come quella di una veggente forse più che altro a caccia di tributi. La maga dei tarocchi sosteneva di avere visto a Torino l’oboista in stato confusionale, all’incirca ormai demente e per stracci, errare in via Barbaroux, diceva prossimo alla chiesa della Misericordia, dove una leggenda riferisce di un cimitero per le salme dei giustiziati.

Né femminile né maschile, l’esecuzione dell’aria barocca «Lascia che io pianga» che Adele ascoltava nel focolare sorseggiando un infuso. Ispezionava con lo sguardo i tetti di Porta Romana e vedeva i raggi e le ombre delle antenne cadere sulle tegole come zampe. E pensava che gli uccelli del musicista scomparso erano passati di mano un’altra volta, un male? Certo ora erano pronti per le sue «amorevoli» cure di sorella. Lei se ne stava seduta accanto a loro, che erano immobili – animali insensibili – quegli esseri che avevano un punto interrogativo sulle zucche, probabilmente scombinati per l’ennesimo avvicendamento di «padrone».

«Siete voi, siete voi…», per un attimo la donna ebbe un moto d’accusa che si disciolse in un baleno mistico e riparatorio: «Chi vuol sentire la voce di Dio si ritiri». Non più giovane era un’ex arpista e contralto, e ora con la disgrazia del fratello tra allucinazione e realtà concluse che la sua vita doveva valer poco. «Prenda queste», il medico diceva. «Con noi c’è nostro Signore…», il parroco. «A dotto’ le dica qualcosa», invitava l’agente durante le sue incursioni in caserma. La risoluzione per una frazione di tempo arrivò da una sorpresa legata all’accudimento e allo stupore per un miracolo: Mi-sol-si-re-fa andavano al di là delle loro possibilità naturali e in certi momenti si sfidavano esibendosi in frammenti d’opera.

Non i Puccini, i Bellini e i Rossini. «Li avrà addestrati lei, Iasmina!?», concluse la pia donna che, con un gesto non voluto si strappò una ciocca di capelli facendo sanguinare la cute. Di questa scoperta non ne parlò con nessuno, salvo un giorno lasciarsi andare con il negoziante da cui andava a comprare il mangime per loro, le bestiacce. La cosa incuriosì, tanto che il venditore di animali la raggirò e le chiese di portarli lì; «insomma quella scoperta non poteva essere tenuta nascosta, doveva diventare pubblica», si sentì rimproverare Adele. Per la scienza, per la curiosità e perché no, per guadagnarci semplicemente il giusto.

La donna, risvegliata da quella combriccola «ereditata» dal povero fratello Fausto e ospitata per poco tempo, si fece convincere e una mattina, afferrata la gabbia, andò dritta per la consegna. «Su per le scale si fa fatica», sussurrava ansante; ma il proprietario del negozio aveva voluto così. Gli uccelli preferiva riceverli nella casa-laboratorio anziché in bottega tra la confusione dei clienti magari indiscreti. «Metti che quelli si mettono a cinguettare “Nessun Dorma…”», ripeteva. All’ultimo gradino della rampa il miracolo degli uccelli canterini fu tragedia. L’arpista canuta fece solo a tempo a poggiar la gabbietta sul pianerottolo poi scivolò all’indietro… Pochi secondi e la sua sagoma diventò un pupazzo a gambe all’aria, bulbi oculari stravolti, il capo ruotato. I pennuti furono tirati dentro l’abitazione dove le urla della malcapitata s’erano confuse con i virtuosismi melodici di un violino alle prese con il «Trillo del diavolo». Non fu del Tartini? Eppoi tutti fuori, dal mercante alla polizia. La folla, i folli, i vicini, i passanti, i curiosi, i becchini, i dispiaciuti, gli indifferenti. Disgrazie, brutture, accidenti, avversità, fatalità… «Faremo, faremo soldi con voi ragazzi… – sussurrò ai pennuti il negoziante passata la giornata infernale -. Quella povera vi ha lasciati a me, “uccellacci benedetti”!». La gabbietta e i loro sinistri abitanti vennero esposti in vetrina con sotto il cartellino «sono buoni, cantano tutto, costano poco». Qualche giorno dopo entrò un giovane uomo che teneva per mano una bambina capricciosa: «Papà papà voglio quelli, voglio quelli…», indicandoli insisteva. «Chiamiamo a casa e sentiamo mamma che cosa pensa…», la risposta. La forza del destino – forse con lo zampino del Verdi – portò da un’altra parte la piccola e il suo genitore e l’acquisto saltò. Ora i pennuti non sono più dietro a una vetrina, perché il negoziante, dopo essere stato investito da un’auto, ha chiuso i commerci. Prima di togliere il disturbo non ha voluto rinunciare all’ultima scommessa. Mi-sol-si-re-fa, affidati a un conoscente, sono di nuovo in vendita e cercano un padrone. Spiega un’inserzione apparsa sulle pagine dei giornali: «Portano fortuna… sono un vero affare!». (Pubblicato il 26 ottobre 2008 sul Giornale)
In allegato: l'”Ave Maria” di Giulio Caccini