Racconto 9 / Gil e le parole del silenzio
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Il racconto (si sa) ha avuto un calo di popolarità – e non parliamo di quello musicale che praticamente è sempre stato un fanalino di coda -. La musica, i suoi strumenti, i suoi protagonisti hanno ispirato poco quanti per necessità o professione o semplicamente per passare il tempo si sono cimentati e si cimentano con le parole. Eppure i soggetti non mancano. Dal pianoforte al flauto traverso, dalle arie barocche ai tempi irregolari di una sonata del Novecento, fino ad arrivare ai giorni nostri, con l’elettronica, la computer music e la rivisitazione in chiave moderna delle antiche polifonie. Un mondo coi suoi “abitanti” col quale si possono inventare delle storie. “Fuori Tono” continua – muovendosi non solo nell’era moderna di cui per sua scelta si occupa – a proporre periodicamente un racconto musicale, accompagnato da una colonna sonora e da un video che possono rappresentare il soggetto. Dopo “Una Rimini da sogno” (29/03/2011), ”Uno Stabat Mater che consola” (29/04/2011) e “Le paure di Rumolandia” (30/05/2011), “Suono I, Suono II, Suono III“ (30/12/2012), “Non entrate in quell’auditorium…” (28/01/2013) e “Il mistero di San Crispino” (27/02/2013), “Le sorelle Lucerna” (29/04/2013) e “Belfagor alla Scala” (30/5/2013) e “Gil e le parole del silenzio”.
Gilberto, per gli amici Gil, aprì gli occhi con una sensazione precisa. Quella di aver sognato di parlare con qualcuno che forse era una donna. Nella stanza, il chiarore di certe mattinate d’inverno a Milano; giochi di ombre e di polvere che nell’aria si vede restare sospesa. Fuori neve fresca e il vuoto dei rumori. Per non farsi disturbare prima di prender sonno aveva staccato la suoneria del telefono, che in quel momento aveva cominciato a lampeggiare. Prese la cornetta ma non ebbe bisogno di rispondere. La mancanza di parole, il respiro appena accennato; nella sua immaginazione sentiva il profumo di Orietta, e al telefono proprio lei, che aspettava. Quando si ha amato a volte è così. Si può restare collegati con un cavo, come in linea diretta, anche se fisicamente lontani. Basta niente per riconoscersi, dallo scricchiolio dell’etere al soffio che sulla pelle nemmeno arriva. Lei dall’altra parte del filo avrebbe voluto dirgli il mondo, inondarlo di confidenze, dopo la serata trascorsa insieme. La risposta sarebbe stata l’universo in regalo, pur di incatenarsi in una vita a due. Ma in quel momento potevano solamente ascoltarsi, senza dire, senza pronunciare neanche una sillaba. La cornetta di un apparecchio, telefonico, in questo caso, usata come un grande orecchio. Quando non si ha da discutere anche questo va bene, per l’urgenza di stare vicini.
Entrambi studenti Gilberto e Orietta, lei all’Accademia delle Belle arti seguiva pittura, lui studiava mosaico e aveva la passione per il Mimo. Si erano spiati parecchie volte di notte, da lontano, sulla via deserta per casa. A distanza di mesi l’incontro in biblioteca, quando il giovane era di turno a dare i libri e a invitare gli studenti nelle sale a restare concentrati e a non disturbare con il chiacchiericcio i compagni, negli orari di studio. Come un grissino Gil il sorridente; la giacca che indossava pareva appoggiata alla spalliera di una sedia. Le ragazze vedevano i suoi occhi verdi, nascosti dietro gli occhiali, e rimbambivano per l’ingenuità di certi suoi sguardi. Piaceva anche per il modo di muoversi, quel giovane. Il suo gesticolare. Elegante, forse un po’ studiato. Tutta un’altra cosa lei. Una bambola tanto malinconica quanto maliziosa, faceva pensare a qualcuno del Nord delle zone dove girano le pale dei mulini a vento. Grissino come lui, occhi color stoviglia, riccioli biondi sulle spalle; in una favola sarebbe stata una soubrette della notte, col suo vagare leggera tra il niente e i bagliori dei fari di un teatro. Il giorno che lei si era avvicinata, dopo averlo squadrato quasi di nascosto tra gli scaffali, stranamente s’era mostrata decisa. Una sorpresa, perché tutti la credevano impacciata. Disponibile poche volte, salutava certe persone e altre no, anche con le compagne si regolava così. Invece, stavolta… Pararsi davanti a quel ragazzo-grissino le era sembrato un gioco. A venticinque anni poi, si ripeteva nella mente, certe cose si possono pensare… anche prima, molto prima. Ma farle quelle cose, quando?
Quella sera sui Navigli si tenevano per mano e avvertivano che solo dopo una giornata di conoscenza, tra di loro sarebbe stato tutto possibile. Intorno la calma delle imposte chiuse. Lampioni intirizziti e animali accucciati sui tetti. Primi fiocchi, briciole d’acqua sui cappotti e la voglia di correre come bambini per dribblare il freddo che tanto chi se ne frega, quella volta unica al mondo, che poteva capitare solo a loro; con quella magia. Un barcone zitto come un gatto in agguato, una sagoma scivolosa tra le acque. Poi a casa liberi. Graffi sulla schiena, morsi sulle spalle, seni schiacciati sul petto fino a sparire. Le mani tra le mani in un incontro di lotta, le labbra aperte. Quel che due amanti sanno fare senza risparmiare i corpi, quando i corpi diventano una grammatica, un suono, una sintassi… L’indomani dopo la telefonata a mezzogiorno eccoli al bar. Due persone che gesticolano davanti a dei pasticcini e a tazze di thé. Già, i baci. Fare le boccucce non sempre vuol dire mandarseli quei baci. Se ci si fanno intorno ghirigori con le mani, poi… Mosse sconosciute. Sì, un codice forse, due signore al caffè intuivano. La padrona del locale svelò la storia quando gli innamorati andarono. Gilbero e Orietta. Spiegava che li conosceva da sempre, che li aveva visti crescere e che ora erano due ragazzi fortunati, perché uno aveva trovato l’altra. Lei muta dalla nascita come la nonna, lui dall’infanzia senza più la voce per uno choc. S’erano trovati senza le voci, senza le parole, senza raccontarsi i pensieri. S’erano presi ed erano bastati gli sguardi, le mani e i sorrisi. Il silenzio.
In allegato: Dream di John Cage