Musica e arte / Il critico Cristina Muccioli: “Simboli e intrecci, il fascino di un dialogo a due”
[youtube D_nKo36UZlM nolink]
Il 26 marzo, alle ore 18.45 presso la White Room del Museo di Santa Giulia di Brescia, per la rassegna “Incontri che sorprendono” sarà presente Cristina Muccioli, docente di Etica della Comunicazione presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, critico d’arte e direttore scientifico dal 2005 del MAC. Ecco un intervento della professoressa sulla musica contemporanea.
Come è cambiato il rapporto arte e musica?
Se fino a un decennio fa si poteva parlare di coerenza espressiva, talora forte, tra musica e arti visive (penso a Karlheinz Stockhausen per esempio e al suo Quartetto per archi ed elicotteri e al video con cui ha presentato il componimento) oggi con le installazioni sonore si può decisamente parlare di legami, intrecci. Alla Biennale di Venezia ha riscosso grande favore del pubblico l’opera di Ariel Guzik. Nella ex chiesa di san Lorenzo (Sestriere Castello), diruta e cariata all’interno, con voragini inquietanti nella pavimentazione cintata e un altare annerito dagli anni ma monumentalmente integro, Guzik ha ambientato un alto, elegante cilindro di vetro con un’apparecchiatura all’interno che produceva flebili suoni in libera dispersione nell’ambiente. A un ascolto distratto sembravano sconnessi, ad uno più attento però si aveva l’impressione di assistere all’eco di una composizione melodica, ultraterrena, straniante e affascinante. Occorreva tempo (a me quantomeno) e confidenza con il silenzio in cui le rovine erano nascostamente immerse.
Qualche personaggio implicato nella ricerca trasversale…
Anni fa ho avuto il piacere di curare le opere pittoriche di Giacomo Carnesecchi, che alla musica (Jazz) ha dedicato gran parte della sua produzione. Si coglie il senso dell’improvvisazione calibrata e sapiente di quel genere di musica, attraverso una pittura dal tratto sicuro, pienamente gestito, eppure libero e vitale. Xavier Loureda è nome d’arte di un direttore d’orchestra portoghese, che da sempre dipinge, e non interpreta iconograficamente la musica che scrive, no: la immagina in figura. Prima la dipinge, poi la scrive. Le sue sono opere sature di colore, ma non si può dire sia un colorista, perché in ognuna la forma geometrica, con i suoi contorni neri insistiti argina e domina la sintassi rigorosa del quadro.
[youtube B_8-B2rNw7s nolink]
Quando il collegamento tra i due “mondi” si può considerare interessante?
Trovo che il collegamento tra la musica e le altre discipline artistiche sia interessante quando non c’è mera traduzione di un linguaggio in un altro, ma interpretazione e resa simbolica, alterità dialogante. Credo (credo) che l’arte figurativa esprima apparentemente di più rispetto alla musica perché (in Italia soprattutto, rispetto a Francia, Germania e Inghilterra) la didattica musicale sia praticamente assente dalle scuole, e ci sia grave e diffusa ignoranza dell’alfabeto musicale (le note) e della sua grammatica compositiva. In periodo di iconoclastia controriformistica, la musica ebbe un momento di realizzazione altissima (Bach per esempio), nel soppiantare e sostituire l’arte figurativa. La diffusione di viagra per le orecchie rappresentata dalla più triviale musica Pop invece (non è snobismo) che con i nuovi supporti tecnologici riempie letteralmente la testa dei ragazzi da mattina a sera, quando fino a poco fa occorreva andare in luoghi deputati – le discoteche – o spendere dei soldi per acquistare un disco, si precluda totalmente la possibilità di affrontare alcuni temi imprescindibili per le altre arti, come quello della memoria e della morte.
Ma in questo discorso si possono fare delle eccezioni?
Si, farei un’eccezione per il Rap, che non riesco ad amare, che però mi sforzo di comprendere genealogicamente e testualmente. Nasce da un tentativo, disperato, di reagire all’alienazione, all’emarginazione. Eminem (per fare un nome per tutti) ha cantato la rabbia e la frustrazione della sua generazione, i maltrattamenti infantili e la normalità della violenza in molti contesti delle periferie urbane americane. Le sue canzoni dal ritmo ossessivo, quasi persecutorio, più parlate che cantate, contengono ricerca, inaspettata caccia alla rima. Molti film sono stati, il caso di dirlo, consonanti con questo tipo di colonna sonora della ribellione. Per quanto riguarda il silenzio, dopo John Cage è diventato una sfida. Quello assoluto da vivi non è raggiungibile. Se ci fosse totale isolamento acustico, si sentirebbe il proprio respiro. Merce rarissima, il silenzio provoca almeno un colpo di tosse che prontamente lo esorcizza dalle sale, a meno che ci si trovi assorti in una contemplazione estatica, così coinvolgente da togliere anche il fiato. Allora l’ascolto comincia dagli occhi.
In allegato: installazione di Ariel Guzik, musiche di Cage e la critica d’arte Cristina Muccioli