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“Studiare troppo non fa male. Però non garantisce nulla. Gli antichi maestri avevano rispetto per la tecnica e degli studi. Il fatto di avere un’esperienza porta alla conoscenza. Ma oggi pare non esserci più una Koiné, una lingua comune, anche nella musica” (Cit.) Il vaso di Pandora è esploso, il musicista con la rivoluzione del Novecento in certi casi è stato sostituto dal demiurgo, il creatore che si sostituisce a dio o agli dei, a seconda dell’orientamento. Questa è una lettura. Poi ci sono quelli del dio sono io e al di fuori di me non esiste. Chi ha ragione? Chi ha torto?

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Chi ha messo la prima pietra sulle macerie del passato, a un certo punto ha tagliato i ponti con la cultura “passatista”, chi è stato spazzato via od emarginato dall’avanguardia, risollevata la testa ora restituisce gli strali a chi ha cercato di voltar pagina senza troppe storie. In questa fase di post, neo e outsider, c’è chi si chiede se al di là della frantumazione massima esista un nuovo orizzonte da conquistare. L’evoluzione della musica tradizionale, i sentieri dell’elettronica, le ibridazioni, le contaminazioni… Le voci ormai non si contano più, forse è giusto così, forse – dopo il big band – l’unità degli stili non esisterà un’altra volta. E allora forse in questo universo in espansione, come sembra esserlo nella realtà, non sarebbe male deporre le armi, senza che nessuno esibisca un atteggiamento di superiorità. L’importante per chi la vuole fare, è la musica d’arte, di ricerca, di senso.