Quella zitella di Parmalat
Se una bella zitella ha le forme di una trentenne e un conto in banca da un miliardo e mezzo è difficile che resti a lungo sola. Ed è così che la Parmalat con tutta probabilità finirà a una multinazionale francese, Lactalis, guidata dalla famiglia Besnier. Una prima reazione, di pancia è il caso di dire, associa il passaggio di mano a una sconfitta calcistica. Francia batte l’Italia 10 a zero. Perdiamo un pezzo di industria alimentare. Il governo sembra assecondare questa visione. Ha qualche ragione. I francesi hanno inventato lo sciovinismo. Quando Enel aveva provato a mettere il becco Oltralpe fu cannoneggiata. Lo stesso Berlusconi ha preso una porta in faccia nelle sue avventure televisive parigine. E la lista potrebbe continuare. Il decreto Chirac del 2005 ha conferito al governo l’ultimo tocco in undici settori economici definiti strategici. Il governo è tentato di applicare una sorta di reciprocità verso Parigi. Si tratterebbe di una mossa di pancia e non di testa: le aziende non si salvano per decreto e la proprietà non si impone per legge. Il caso Parmalat spiega bene perché è stato piuttosto il capitalismo italiano a mancare all’appello.
Ricapitoliamo velocemente la vicenda. Parmalat negli ultimi sette anni, dopo il crac Tanzi, è stata gestita da un commissario, Bondi, che si è fatto amministratore (e che dove tocca porta stranieri, come nel caso Edison e Lucchini). Giace su una cassa favolosa (circa 1,5 miliardi di euro) derivante in gran parte dalle cause fatte alle banche considerate conniventi con il Lattaio. Oltre a ciò fa buoni margini. Bondi si è disegnato uno statuto societario per cui la lista che raggiunge la maggioranza in assemblea prende anche una straordinaria maggioranza in consiglio. Il tutto con una società quotata in Borsa: e dunque con la libertà di scambio tipica di un regime finanziario di stampo non sovietico.
Ebbene, in tutti questi anni la gallina dalle uova d’oro era lì che covava. Alcuni fondi avevano capito l’affare: tanto che già l’anno scorso il 20% della società era in mano a quattro fondi istituzionali stranieri. Certo Bondi comandava. Ma le azioni erano altrove: e insomma il rischio che qualcuno si svegliasse era solo lì da vedere. L’intraprendente numero uno della Lactalis non ha fatto altro che dare un bel pacchetto di quattrini a questi fondi e si è portato a casa la gallinella; ad un prezzo complessivo inferiore alla stessa cassa che si troverà in dote. Al francese inoltre basterà il 29% per avere il potere assoluto in cda: altro regalo dell’italianissimo capitalismo. In più non dovrà lanciare una costosa offerta pubblica sul mercato per comprare il flottante, che avrebbe reso la scalata ben più costosa. Ma non si tratta mica di un’invenzione parigina: è l’italianissima legge Draghi che lo prevede. La stessa norma, per dirne una, che ha permesso agli Agnelli di Exor di mantenere il controllo della Fiat in mani torinesi senza alcun obbligo di Opa.
La morale è che questo si chiama mercato. Parmalat è quotata in Borsa da anni. A renderla vulnerabile è stato il suo ex proprietario che ha truffato migliaia di risparmiatori. E la mancanza di uno straccio di imprenditore italiano che in sette anni non abbia pensato di fare esattamente ciò che ha fatto Besnier. Ora possiamo piangerci sopra. Possiamo invocare leggi protezioniste. Possiamo chiedere al mastino delle Entrate, Befera, di fare buuu ai francesi. E in un’ipotesi (molto remota al momento), possiamo sperare di spaventare talmente tanto i francesi da ricondurli a più miti consigli. Possiamo fare tutto ciò. Ma in questo scenario medievale, il primo che si azzardi a lamentare della mancanza di investimenti stranieri in Italia, dovremmo fucilarlo. Per decreto d’urgenza, s’intende