Un disastro Popolare
È inutile girarci intorno. Se la Banca Popolare di Milano fosse un’azienda normale oggi avrebbe due strade: portare i libri in tribunale o vendersi al migliore offerente a prezzi di saldo. Il mantra dell’Italia senza fallimenti bancari verrebbe clamorosamente smentito. Eppure nella nostra strana economia a metà strada tra il liberismo anglosassone e il socialismo continentale, non assisteremo a nessuna delle due evenienze. Per la decima banca italiana ci sarà una terza via. Bipiemme come tutte le banche popolari ha una catena di comando particolare: una testa un voto. Insomma indipendentemente dal numero di azioni che uno possiede, in assemblea votano le teste.
Il risultato è che l’azienda è stata gestita dai suoi sindacati, molto gelosi di questa prerogativa. Ai nostri fini ciò che importa è che nessuno ha oggi voglia di salvare la banca mettendoci «il grano». Servono molti quattrini. Ma chi è disposto a investire grandi somme con la certezza di non poter contare un accidente nonostante lo sforzo economico fatto? Forse qualche ubriaco. Ma di questi tempi per i mercati mondiali, ubriachi con quattrini da spendere non ce ne sono. Tutti spazzati via dalla crisi. La realtà è che Bipiemme è proprio messa male. Il mercato se ne è accorto. In tre anni il suo valore di Borsa si è ridotto da 7 miliardi a meno di 700 milioni: dieci volte di meno. Secondo le più accreditate stime degli analisti, oggi la banca milanese ha nel suo pancione (compresi gli ultimi rilievi fatti dalla Banca d’Italia)prestiti lordi problematici (quelli su cui non puoi scommettere su una pronta e sicura restituzione) della bellezza di 3,8 miliardi su circa 36 miliardi di prestiti. Sintetizziamo per non perderci tra i numeri: oggi la banca vale dieci volte meno di tre anni fa e un suo prestito ogni dieci rischia di essere in sofferenza. La Banca d’Italia ha intimato la popolare milanese di raccogliere subito nuovo capitale sul mercato. E ha stabilito anche un ammontare pari a 1,2 miliardi.
Si deve fare un aumento di capitale che recuperi il doppio dell’attuale valore oggi di Borsa della Bipiemme. Le prime proiezioni dicono che si dovranno emettere almeno tre miliardi di nuove azioni (oggi ne circolano 415 milioni): un salasso. Ma qui la vicenda si rende più intricata. Gli attuali azionisti non ne vogliono proprio più sapere di mettere quattrini in banca. Recentemente hanno sottoscritto un’obbligazione (che sitrasforma in azione) che ha rappresentato per loro una perdita secca, viste le condizioni di conversione. È difficile che ci ricaschino. Grandi investitori pronti a far la scalata non ci sono: posto che una scalata, proprio per il voto capitario, non è realizzabile. Sembrerebbe una situazione da scacco matto. Ma così non è. Siamo pur sempre in Italia. E non è che all’estero siano stati proprio dei lord nel rispetto delle regole del mercato, quando ad andare in sofferenza è stata una banca. E dunque una via d’uscita sembra che si stia formando. Stretta. Complicata. Ma pur sempre un’uscita. L’aumento di capitale da 1,2 miliardi in realtà è stato già sottoscritto ( non è esattamente e tecnicamente così) da Mediobanca. L’istituto di via Filodrammatici ha infatti preso l’impegno (dietro commissioni che il mercato rumoreggia del 2%) a collocare le nuove azioni Bipiemme. Se non dovesse riuscire a piazzarle al pubblico dei risparmiatori, se le terrebbe in casa. O più probabilmente condividerebbe il rischio con altre istituzioni finanziarie pronte a sottoscrivere pro quota il capitale inoptato.
Mediobanca e i suoi compagni di ventura si troverebbero così di fatto azionisti della Bipiemme. Dal punto di vista industriale per Nagel e Pagliaro (i boss della banca fondata da Cuccia) sarebbe un affarone. Mediobanca ha bisogno della raccolta che si fa agli sportelli bancari (cosa di cui essa non dispone) come l’acqua per un pesce. Si è inventata l’ottima Che Banca! proprio per portarsi a casa un po’ di cash: ma i 4 miliardi netti non sono sufficienti. Insomma gli 800 sportelli di Bipiemme, con raccolta connessa, ingolosiscono Nagel&Co. Vi sarebbe un problema, non di piccolo conto, con i parametri di Basilea e con i suoi ratio. Ma tutto sarebbe superabile, con una piccola norma, sulla quale da anni si lavora e che nelle ultime ore sta prendendo piede. La leggina direbbe la seguente cosa: «Fermo restando lo statuto delle banche popolari, che prevede il voto capitario, da esso sono esentati gli investitori istituzionali, per una quota che comunque non superi il 5% del capitale complessivo della popolare».
Bipiemme improvvisamente diventerebbe una splendida principessa. Finalmente in banca si potrebbe governare spazzando le incrostazioni del passato. Certo Mediobanca dovrebbe condividere con altri soci (4 soci farebbero il 20% della Bipiemme) lo scettro del comando: ma è pur sempre meglio che farlo con migliaia di piccoli azionisti. Il tutto si intreccia con il rinnovo del patto di sindacato di Mediobanca. La doppia scommessa di Nagel e Pagliaro è ridurre il peso dei soci nella loro governance e aumentare il loro ( di peso) in quella della popolare di Milano.