Quante balle sul posto fisso
Se c’è una cosa con cui non si creano posti di lavoro sono le balle. E la politica economica ne ha raccontate a non finire. Ecco perché Mario Monti ha fatto bene, benissimo a spendere un po’ del suo consenso dicendo la verità: ragazzi scordatevi il posto fisso.
Un altro professore, con un tono se vogliamo un po’ da maestrino, disse anni fa una cosa piuttosto simile: i trentenni che belli e pasciuti sono ancora a casa con i loro genitori sono dei bamboccioni.
Prima colossale balla: il lavoro è un diritto. Certo c’è la Costituzione, ci sono decenni di sociologia e di «buonismo alla cioè». Il lavoro è piuttosto un dovere. Un dovere che si conquista, che ci completa e che ci permette di vivere. Ma l’idea che il lavoro sia dovuto (e poi da chi?) è l’utopia di una società pianificata e dunque povera. Ci sono i diritti sul lavoro. È ovvio. Il lavoro non si crea dal nulla. Lo forniamo a delle imprese, che grazie al nostro lavoro prosperano. Se bastoniamo le imprese, il lavoro semplicemente scompare. In effetti esiste un lavoro che non è legato all’efficienza del mercato: è quello pubblico. Più di 3,5 milioni di dipendenti pubblici, anche se spesso lo dimenticano, sono al servizio dei contribuenti che li remunerano. Ma il rapporto tra committente (noi) e dipendenti (pubblici) si è talmente scollegato che non vi è più alcuna sana relazione tra i primi e i secondi. D’altronde essendo la remunerazione (non il posto in sé, che è fisso) legata a decisioni pubbliche e politiche diventa inevitabile la nostra irrilevanza come cittadini nel determinare l’efficienza della macchina lavorativa.
Seconda balla: senza posto fisso non esiste un futuro. È esatto il contrario. Da circa vent’anni l’impresa italiana è allergica al posto fisso. Per il semplice motivo che l’impresa italiana non ha essa stessa alcuna garanzia di poter continuare ad operare nel tempo. Le imprese non sono eterne. La capacità degli imprenditori che sono sul mercato non è solo quella di vendere prodotti apprezzati con guadagno, ma soprattutto quella di riuscire a farlo per un periodo lungo. Siamo sicuri che Apple tra vent’anni sarà di successo come oggi? Ce lo auguriamo, ma non è certo. Erano forse sicuri i finlandesi che la loro Nokia avrebbe continuato in eterno ad essere leader dei telefonini? Forse sì, ma avrebbero sbagliato. Per farla breve: le imprese nascono e muoiono, prosperano e vanno in crisi, a tassi molto più rapidi che nel passato. Immaginare di poter legare la propria fortuna lavorativa a una sola impresa è oggi materia per folli. Quando mio figlio scambiò un’impresa per la pubblica amministrazione, parafrasando Oliver Sacks. Trattasi di medesima malattia mentale che deforma le percezioni della realtà.
Terza balla: la mancanza di prospettiva lavorativa brucia la nostra gioventù. Siamo tutti preoccupati per i nostri figli senza lavoro. Trattasi, per carità, di un bel problema. Ma in Italia lavorano in pochi. Abbiamo il tasso di occupazione più basso d’Europa. Se dovessimo fare come gli altri, dovremmo avere la bellezza di sette milioni di occupati in più (su circa 23 che già lavorano). In Italia lavorano in pochi e si lavora poco. I giovani avranno i loro bei problemi. Ma i cinquantenni le cui imprese sono fallite? I cinque milioni di paria-subordinati che lo stato tassa come se fossero Rockerduck e che obbliga ad accantonare contributi per pensioni che non avranno mai? Insomma ci innamoriamo sempre di un’idea politicamente corretta: la donne che non lavorano, i giovani costretti a casa. Tutto vero. Ma in questo paese la fascia di coloro che non hanno un’occupazione è perfettamente trasversale. Se si utilizzassero le curve del benessere di Rawls (un pericoloso progressista) si potrebbe anzi dire che a soffrire maggiormente della mancanza di lavoro sono i maschi, in età adulta e capofamiglia: sono coloro che hanno più da perdere senza il lavoro.
Quarta balla, che piace molto al sindacato. Toccare l’articolo 18 et similia non migliora la situazione, abbassa per tutti l’asticella dei diritti. L’idea, di chi non ha mai lavorato, è che il lavoro e l’economia si reggano su decisioni pubbliche. Stabilisco che detta fabbrica (Termini Imerese per dirne una) debba continuare a produrre le auto nonostante l’azienda la voglia chiudere. Stabilisco che talaltro imprenditore non possa spostare la sua produzione in paesi confinanti con un decreto legge. L’idea, insomma, che lo Stato conservi i posti di lavoro per conto di terzi.
Più che la via per la schiavitù, questa è la strada adottata negli ultimi cinquant’anni per portare sull’orlo del fallimento il nostro paese. La politica industriale, in poche parole, è una grande fregnaccia: è lo strumento con il quale la politica maschera la propria volontà di controllo sul mercato, attraverso una locuzione forbita. Sia chiaro lo Stato è indispensabile. Alcune scelte strategiche si debbono fare (mettersi nelle condizioni di avere energia a bassi prezzi è una di queste), ma ritenere che a Roma qualcuno possa azzeccare la futura evoluzione del mercato meglio degli imprenditori stessi è pura follia.
Ha ragione Monti: il posto fisso è morto. Purtroppo non si può dire altrettanto della nostre politiche economiche che sono fisse da cinquant’anni.