I mercati sempre pazzi
Ci risiamo. Martedì i mercati finanziari hanno dato una botta che si farà sentire anche nei prossimi giorni. Le Borse europee sono crollate. Quella italiana ha fatto peggio di tutte, con un calo del 5 per cento. È fisiologico: poiché il nostro indice azionario è composto per lo più da azioni bancarie. E proprio sugli istituti di credito è iniziata la bufera. I titoli di Stato dei Paesi mediterranei hanno fatto segnare un forte rialzo dei loro tassi di interesse. Il che, come ormai sappiamo, è un brutto segnale. Più rendono, più la febbre è alta. Ieri un titolo a dieci anni spagnolo rendeva il 5,95 per cento, uno italiano il 5,67. Nel frattempo gli investitori si sono affrettati a mettere i loro risparmi in un rifugio considerato sicuro come il Bund tedesco, che ieri è sceso a un tasso di interesse ridicolo (e inferiore all’inflazione) dell’1,64 per cento. Qualcuno un giorno si chiederà che follia è prestare alla Merkel i propri quattrini per dieci anni a un tasso così basso. Ma questo è un altro discorso. La conseguenza è che i cosiddetti spread ( quello che ci interessa è il differenziale tra decennali italiani e tedeschi) sono risaliti al 4 per cento.
Per carità di patria sorvoliamo sugli ultimi aggiornamenti dello scenario economico. Dalla disoccupazione americana che non scende, alla ricchezza cinese che non sale come dovrebbe. Il punto che a noi interessa è tutto europeo.
Una prima considerazione decisamente sbagliata e piuttosto tifosa che si potrebbe ora fare è attribuire le responsabilità al governo Monti. È ciò che ieri ha provato a fare il governatore della Banca centrale spagnola attribuendo al premier italiano e alla sua presunta debolezza (tale a nostro avviso comunque resta) nel riformare il mercato del lavoro, la colpa del martedì nero.
Sono tutte palle. Diverso il ragionamento di Renato Brunetta fatto su queste colonne proprio ieri. Esso aveva a che vedere con le proprietà salvifiche che si attribuivano a qualsiasi mossa il governo Monti facesse. Insomma andare a incistarsi sulle faccende della nostra bassa cucina politica per comprenderequello che sta avvenendo sui mercati è fuorviante. Chiunque sia lì fuori, davanti ai movimenti repentini schematizzati negli schermi dei computer, vi dice che è in corso l’ennesimo attacco all’euro e alla sua costruzione. Importa relativamente poco quale sia il fronte dell’attacco: prima il greco, poi l’italiano e ora lo spagnolo. E ancora prima quello irlandese. Quel che conta è l’attacco. Negli ultimi mesi abbiamo resistito grazie alle armi non convenzionali della Banca centrale europea: ha pompato, come mai nella sua breve storia, tonnellate di liquidità nel sistema bancario.
Le sole banche italiane ne hanno fatto una scorpacciata superiore ai cento miliardi. Gran parte (54 miliardi) sono stati utilizzati per comprare merce pubblica: i titoli di Stato. Ma, e questo avrebbe dovuto farci pensare nei mesi scorsi,alle aste dei Bot c’erano praticamente solo acquirenti italiani. Analogo scenario per quelle spagnole e in misura ridotta per quelle francesi. Nessuno si fida degli altri e per di più le poche risorse che si hanno a disposizione si utilizzano per far pulizia in casa. In barba al mercato unico e alla libera circolazione delle merci che avrebbe dovuto garantire la Ue e la moneta unica. La realtà, è ciò su cui specula il mercato, è che l’Europa ha sì una moneta unica, ma mercati del debito pubblico, affidabilità delle politiche economiche, capacità di crescita, molto diverse tra Stato e Stato. Queste differenze sono registrate dai diversi tassi di interesse nazionali, ma denominate con una unica unità di misura:l’euro. Il mercato (se preferite gli speculatori, ma sono la stessa cosa) ritengono che questo stato di cose non possa continuare a lungo. La valvola di sfogo si chiama tassi di interesse: al diminuire della fiducia in uno Stato, essi aumentano. Ma oltre un certo limite non possono andare. Come ben sappiamo oltre una soglia lecasse pubbliche salterebbero per il costo a cui dovrebbero servire i propri debiti. Ecco che si punta alla rottura della diga: all’apertura della valvola delle valvole. La moneta. È questo il premio finale della speculazione. È il lato debole dell’Europa. Mettiamocelo bene in testa.
Ieri in un commento al Wall Street Journal compariva una breve nota, nascosta nell’ampiezza della rete, del premio Nobel Vernon Smith che diceva: «Grecia, probabilmente Portogallo e Spagna, e aggiungi l’Italia sono di fatto fallite. I salvataggi preserveranno la loro struttura, ma al costo di una prolungata e davvero pesante recessione. Al contrario di Paesi (Islanda e Polonia) che non sono inchiodati all’euro».
Forse l’economista americano ha la freddezza per giudicare le cose da un punto di vista più distaccato rispetto al nostro. Ma una via d’uscita alternativa ci potrebbe essere. È altrettanto dolorosa, ma forse più efficace. E non a caso solo poche settimane fa l’ha indicata Mario Draghi: dobbiamo rinunciare allo Stato sociale come lo abbiamo avuto nel Novecento. Ridurre il peso dello Stato, azzannare la spesa pubblica, abbattere le aliquote fiscali e riformare radicalmente le nostre strutture di produzione. E farlo in modo coordinato in tutta Europa. Il tempo che ha comprato la Bce (attraverso i suoi prestiti a tassi agevolati e durata di tre anni) non verrebbe così vanificato.