Le auto blu non fanno crescita
Tutti, ma proprio tutti, invocano la crescita. La cosa singolare è che a invocarla con maggiore forza sono proprio coloro che la bloccano. La crescita economica nasce dall’aumento dei consumi o da quello degli investimenti. Si consuma di più se si hanno due spiccioli in tasca (il cosiddetto reddito disponibile); e si investe con maggiore forza se si ha la consapevolezza di poter avere un buon profitto negli anni a venire. I privati sono il motore della crescita economica: mica Babbo Natale. Sono loro che spendendo creano ricchezza e investendo rendono le proprie imprese più competitive e vincenti sui mercati.
Se non si hanno ben chiari questi elementari principi, di buon senso più che di economia, si fa solo demagogia. Se la politica e i governi fossero conseguenti al loro invito alla crescita, dovrebbero semplicemente fare un passo indietro. Al contrario fanno un passo avanti. Il governo ha deciso di spendere dieci milioni per comprare 400 auto blu: avrà i suoi buoni motivi tecnico-organizzativi. Ma nel contempo ha stabilito più di tre miliardi di stretta fiscale sulle auto (dal bollo alla benzina, dalla detraibilità alle tasse locali) utilizzate dai privati. È un governo che proclama come suo obiettivo la crescita, ma riduce il reddito disponibile e gli investimenti attraverso la leva fiscale. Il gioco non è a somma zero. Abbiamo la presunzione di pensare che un euro speso da un privato sia più produttivo di quello speso dal pubblico che non ha alcun incentivo a efficienza e competitività, semplicemente perché opera al di fuori del mercato.
La Regione Sicilia ha deciso nei giorni scorsi di stabilizzare 22mila precari (all’interno articolo di Mariateresa Conti). Lavoratori del pubblico che spesso mandano avanti da anni gli enti locali. Sono stati, spesso per motivi elettorali, ingannati. Ma nel frattempo decine di migliaia di imprese non sopravviveranno alla nuova tassa immobiliare che il governo ha posto anche sulle botteghe e le aziende agricole. Decine di migliaia di italiani perderanno il lavoro per questo motivo. La selezione, troppo spesso, non è fatta dall’incapacità di questi settori di competere sul mercato, ma dall’impossibilità di resistere con un tasso di fiscalità decisamente superiore rispetto ai competitor internazionali. Con queste mosse si riducono consumi e investimenti privati e si pagano i redditi del pubblico impiego. Il gioco non è a somma zero, è ancora una volta negativo.
Il governo ha varato un pacchetto di liberalizzazioni e semplificazioni che, secondo le prime dichiarazioni di Monti, avrebbe incrementato il nostro Pil del 10 per cento in dieci anni. Solo nei giorni scorsi abbiamo visto i numeri veri: ci porterà un misero 2,4 per cento nei prossimi nove (stime del Def, tabella II.14). Poco, troppo poco, per compensare la più grande barriera all’entrata che esista nell’economia italiana: la fiscalità espropriativa.