Goldman e le relazioni pericolose
Bisognerebbe obbligare ogni politico che si voglia affacciare alla ribalta delle nostre istituzioni a passare un mese nell’ufficio di Maria Cannata al Tesoro. E solo dopo ammetterlo nelle sacre stanze. La signora gestisce il nostro debito pubblico che, pur essendo grande, non sa badare da solo a se stesso. Insomma ogni mese cerca di piazzare al meglio i nostri titoli di Stato: un compito micidiale. Nel giro di sei anni (durata media del nostro debito) deve andare a chiedere al mercato la bellezza di 2mila miliardi di euro. Con qualsiasi tempo ci sia là fuori. Sarebbe un bel corso per capire quanto sia difficile gestire le nostre istituzioni e i nostri conti. Il Tesoro è inoltre il più grande proprietario di società quotate nell’asfittica Borsa italiana. E su quelle che non controlla direttamente (le banche) mette lo zampino per via delle Fondazioni.
Chiaro il concetto? Oggi, ma anche ieri, il Tesoro italiano è il miglior cliente delle banche d’affari. Emissioni di titoli di Stato, obbligazioni societarie, vendita di quote azionarie, fusioni, acquisizioni, scorpori e coperture, passano per quelle stanze. Ecco perché, qualcuno, in modo naif ma efficace ha ieri sostenuto che lo vendita da parte di Goldman Sachs dei titoli di Stato italiani (fatta nei mesi scorsi) non doveva passare liscia. L’argomento non è così grezzo. Le competenze delle grandi banche d’affari internazionali ci sono anche nelle nostre (che negli stessi mesi si sono inghiottite non solo i titoli di Goldman ma anche il rischio che ne consegue) e se queste non ci aiutano a diversificare anche geograficamente i nostri collocamenti, diventano meno strategiche. La questione è ovviamente molto più complessa. Ma resta un punto fondamentale. Perché il Tesoro non alza un po’ il livello della sua, chiamiamola così, moral suasion nei confronti delle banche internazionali? Semplice. Perché queste ultime non sono sceme. Si dice spesso che l’Italia è un’economia delle relazioni. Ma niente in confronto a quello dei grandi network bancari anglosassoni. Qua non si parla di complotti. Si fa piuttosto un elenco perfettamente bipartisan del modo con cui le grandi banche internazionali hanno agganciato la nostra classe dirigente. In Goldman (i cui uffici in America sono una porta girevole con il ministero del Tesoro) oltre agli stranoti casi di Draghi e Monti (membri a suo tempo dell’advisory board) ci sono quelli meno noti di Gianni Letta ed Enrico Vitali (dello studio Tremonti). In Morgan Stanley ha un bel posticino l’ottimo Domenico Siniscalco, ex direttore generale e ministro dell’Economia. Deutsche Bank non ha potuto fare a meno della consulenza di Giuliano Amato. In Citigroup l’Ambasciatore Ruggiero si dice che riuscì a portare, tra l’altro, un pezzettino di mandato per la fusione di Intesa con San Paolo, e in Merrill Lynch furono usate alla grande le buone relazioni in Italia dell’allora ambasciatore americano Reginald Bartholomew. Nella pomposa e ricca Hsbc sono transitati Vito Gamberale e Giovannino Malagò (sì si quello delle Ferrari che conosce mezzo mondo tra via Paisiello e Anima e Core). Le ex società pubbliche dei trasporti sono una buona palestra: Innocenzo Cipolletta dalle Fs passa a Ubs e Francesco Mengozzi dall’Alitalia prima a Lehman e ora a Nomura. Chicco Testa dovrebbe avere ancora un posticino in Rothschild. E il nostro ministro dell’economia Vittorio Grilli, tra il Tesoro e il Tesoro ha passato un anno a Londra per Credit Suisse.
Sono tutte persone degnissime e molto competenti. Le banche internazionali, viene da credere, li hanno assunti, consultati, agganciati anche per evitare che quando uno dei loro gestori a Boston decide che il rischio nel comprare un titolo di Stato italiano sia eccessivo, loro possano spiegarlo nei dovuti modi alla Cannata. O a chi per lei.