Meglio un euro debole
C’è un numeretto molto sottovalutato, ma che determinerà il numero dei nostri occupati, la crescita della produzione e della ricchezza italiana. È il cambio tra dollaro ed euro. Nei primi sette mesi del 2011 era pari a 1,41 dollari per euro. Nel medesimo periodo del 2012 l’euro si è notevolmente deprezzato rispetto alla valuta americana: e per comprare un biglietto verde erano necessari 1,28 euro. Una moneta comune debole comporta una maggiore facilità per le nostre imprese di vendere bene i servizi all’estero, grazie al positivo effetto del cambio. Ovviamente per noi diventano più care le importazioni. Il meccanismo è piuttosto semplice. E matematico.
Basta vedere i dati sulla bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni) forniti ieri dall’Istat. Ebbene, a luglio scorso il saldo per l’Italia era positivo: abbiamo venduto all’estero più di quanto abbiamo comprato. Un risultato così non si vedeva da quindici anni. E si badi bene. L’Italia a differenza di molti suoi concorrenti è costretta a pagare in dollari una bolletta energetica formidabile. Il che vuol dire che se il saldo della bilancia commerciale è positivo, lo sforzo delle nostre imprese a trovarsi clienti fuori da casa è stato doppio. La nostra meccanica da sola vale 60 miliardi di esportazioni, l’agroalimentare ha fatto segnare un tasso di crescita importante. Le imprese più sane hanno tratto molti benefici dai primi sette mesi del 2012 grazie ad un euro relativamente più debole rispetto al 2011.
Un effetto positivo sulla bilancia commerciale è derivato anche dal fatto che gli italiani, per colpa della crisi, hanno consumato molto di meno e dunque importato meno prodotti dall’estero.
Resta un dato di fondo. La nostra ricchezza nei primi sei mesi dell’anno è decresciuta quasi di due punti percentuali. Il contributo maggiore al calo del Pil è stato dato da quasi un cinque per cento in meno di domanda interna. Invece il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil è stato positivo per tre punti percentuali. Ciò vuol dire che la nostra ricchezza e produzione negli ultimi sei mesi non è crollata solo grazie alle imprese esportatrici che, producendo a manetta, hanno creato reddito. Inoltre queste imprese hanno fatto un salto di livello: la quantità di beni venduti all’estero è diminuita (meno pasta e meno utensili), ma la loro qualità è aumentata (il prezzo dei beni ceduti agli stranieri è stato più alto). È la strada giusta. Non si deve approfittare, come spesso abbiamo fatto con la liretta, delle svalutazioni per diventare la fabbrica del mondo (oggi quel ruolo è della Cina). Piuttosto si deve cogliere l’opportunità per guadagnare nuove fette di mercato, possibilmente quello premium.
I dati della bilancia commerciale evidenziano come il salto delle nostre esportazioni (con aumenti tra il 20 e il 30 per cento) è avvenuto verso gli Stati Uniti, l’area asiatica e quella Opec. Al netto delle importazioni di energia, abbiamo fatto segnare un surplus della bilancia commerciale di 42 miliardi di euro in sette mesi: tre volte più del 2011.
La morale è semplice. Alcune imprese italiane (non poche) si sono rimboccate le maniche e nonostante tutto hanno venduto non bene, ma alla grande. Hanno sfruttato l’euro debole per piazzare prodotti di qualità.
Purtroppo, nonostante se ne parli poco, i politici americani conoscono bene questa dinamica. E si stanno dando da fare per rendere il dollaro sempre meno forte, così da aiutare le proprie imprese. Mentre la Bce è lì combattuta nell’acquisto dei titoli di Stato, la Fed ha in mano la metà del debito pubblico (a lunga scadenza) americano, tiene i tassi a zero e promette di farlo sino al 2015. Insomma tante scuse monetarie per scoraggiare i mercati ad acquistare dollari. Gli americani non vogliono più vedere l’euro a quota 1,20 (luglio 2012), ma sognano di ritornare a 1,40 (media 2011). E grazie alla loro banca centrale rischiano di riuscirci. Alla faccia della nostra bilancia commerciale e dei nostri invisibili dell’export.