Il mercato batte tutti. Un bel libro di Mingardi
C’è una cosa che non va nel nuovo libro di Alberto Mingardi: il titolo. È il seguente: L’intelligenza del denaro (Marsilio, pagg. 334,euro 21). Un po’ conosciamo editori ed editor e forse hanno pensato che la parola «denaro» fosse più accattivante di altre. Ma il problema è che non dovevano chiosarlo. La Marsilio ha infatti deciso di sottotitolare le 334 pagine del giovane economista liberale così: «Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto». Ecco, questo è il senso vero del saggio di Mingardi. Rende appieno l’idea di quello che andremo a leggere. Il denaro, come ci spiegherà il testo, è più o meno una merce, e merita il posto che merita. È utile più di un sacchetto di patate o di una conchiglia per permettere agli uomini di scambiarsi reciproche utilità. Non più di questo. Il vero processo rivoluzionario è il mercato, e il suo funzionamento è quello che Mingardi guarda, legge e spiega in modo fresco e inusuale per l’Italia.
Fatta questa premessa, che nasce dalla semplice esigenza di trovare almeno un difetto a qualcosa che è piaciuto da impazzire, possiamo andare alla ciccia.
Il libro di Mingardi, abbiamo già detto, è un lungo viaggio nel racconto del mercato. Non è per addetti ai lavori, ma non è neanche semplicistico. Si presta, come tutti i buoni saggi, a diverse chiavi di lettura. Una più superficiale che offre un’infarinatura non scontata dei meccanismi che regolano il mercato. E una più sofisticata che legge tra le righe i maestri del pensiero liberale. Mingardi non ne risparmia uno. Almeno di quelli che contano. State certi che ogni autore citato è come un collegamento ipertestuale verso i nuovi e i vecchi mondi del liberalismo classico e dunque rivoluzionario. Gli austriaci ovviamente escono ad ogni nota, e poi Chicago, con Friedman, ma non solo. C’è spazio per Manzoni sulla formazione dei prezzi e ovviamente i grandi della politica liberista. Per Mingardi il liberale è il liberista. Ma il tema non è declinato alla Zingales, per intendersi: che pure ha recentemente pubblicato l’ottimo Manifesto capitalista (Rizzoli). Mingardi parte da prima, dalla base: dal mercato. Ci racconta attraverso la nascita dei primi e pesanti telefoni cellulari la metafora del mercato, il suo senso più profondo. Il mercato non è un progetto, è un processo che si nutre di due condizioni fondamentali dell’antropologia: l’ignoranza e l’incertezza. Il mercato non è un orologio ma un caleidoscopio. Non è un esercito, non è fisica, semmai è biologia. Il mercato non si definisce per differenza, ma per coloro che ne fanno parte: che sono e sempre resteranno singoli esseri umani, consumatori e produttori, portati alla cooperazione sempre in modo volontario, anche se talvolta in modo non consapevole.
Non c’è un’originalità scientifica in ciò che scrive Mingardi, c’è una originalità metodologica. Il giovane economista, tra i tanti nodi del pensiero liberale che avrebbe potuto sciogliere, parte a nostro avviso da quello più importante, dal principio. La scelta è sostanza. Il mercato ha una sua lingua che è quella dei prezzi. Viene prima il luogo e poi il modo di affrontarlo. Ad ogni passaggio logico Mingardi si fa aiutare da un grande del pensiero liberale: Carl Menger (1840-1921) per il significato della moneta, quel danaro presente nel titolo. La Thatcher sulla disputa degli universali: esiste forse una società? O si tratta di una somma di individui? Hayek e Mises sui prezzi e Friedman sui consumatori.
I primi due capitoli del libro sciolgono nell’acido del buon senso le incrostazioni socialiste e fintamente liberali che sono state costruite intorno ai concetti di mercato, prezzi, regole, imprenditori e profitto. E anche qualche abusata copertina di Linus che noi liberali ci ostiniamo a mantenere: interessante la critica (simile a quella che farebbe un telecronista allo swing di Tiger Woods) all’arcinota definizione di mercato e mano invisibile. Mingardi ci vede un rischio di ambiguità: di attribuzione di un progetto, poco importa se positivo, a un processo che per definizione non ne può avere. Da approfondire, così come la teoria, ovviamente ben più matura, del fallimento come aspetto fondamentale di un mercato libero. Senza di esso che processo è? In questi primi capitoli anche l’abbozzo della tesi forse più attuale del saggio: regole e regolamenti sono oggi rischi largamente sottovalutati. Viene come immediata conseguenza dunque la sintesi fatta per l’ultimo capitolo, «dove si sconfessa il legame tra la crisi finanziaria (del 2007-2008) e un ipotetico fallimento del mercato: quella che abbiamo di fronte è una crisi di certezza, generata proprio dalla scelta di optare per la sospensione delle regole di mercato a favore di interventi discrezionali».
Quattro, cinque persone condividono questa tesi in Italia. Speriamo che la legga e se ne convinca qualcuna di più, grazie ad Alberto Mingardi.