Gli affari dei Benetton? Di tutti i colori
La zuppa si cucina una storia a cui aveva accennato qualche settimana fa in un suo post scriptum. Che vale evidentemente la pena sviluppare un po’. Riguarda la fusione, tutta in casa Benetton, di due sue nobili controllate: Atlantia, la scatola quotata in Borsa, che controlla le autostrade, e Gemina, un’altra società quotata, che invece ha in pancia gli aeroporti di Roma. La famiglia veneta controlla la prima con circa il 48% delle azioni e la seconda con il 36 per cento. Non discuteremo in questa sede le opportunità industriali di mettere insieme piste di decollo con strade, ma di alcuni dettagli con cui l’operazione è stata fatta, che fanno riflettere sul ruolo delle minoranze nelle società italiane. Alla fine di un complicato processo di valutazione delle due imprese, si è stabilito di fondere Gemina in Atlantia con un concambio di 9 azioni degli aeroporti per ogni azione delle autostrade.
Il mercato si è molto interrogato su questi valori relativi e soprattutto su una certa supervalutazione di Atlantia (8,9 volte il margine operativo lordo aggiustato) e una decisa sottovalutazione di Gemina (7,5 volte il medesimo margine). Questioni che riguardano i tecnici e in cui è sempre difficile mettere bocca. I più critici sostengono, ad esempio, che recenti affari realizzati su società aeroportuali le hanno valutate il doppio, soprattutto in considerazione del fatto che Gemina si è appena portata a casa una revisione delle tariffe sul suo scalo di Fiumicino. Una cosettina che vale circa 150 milioni di margine in più all’anno (sui 266 oggi realizzati).
Ciò che ci fece saltare sulla sedia però non sono state queste valutazioni, ma il fatto che le holding della famiglia Benetton proprio nel momento in cui si stavano decidendo i concambi si sono affrettate a comprare sul mercato in quindici giorni la bellezza di 8.4 milioni di azioni Atlantia (il 41% dei volumi di quel momento) sostenendo così le quotazioni e di fatto la loro forza relativa rispetto a Gemina. Tutto legale, ma non molto trasparente. Così va la vita a Piazza Affari.
Ma a questo primo campanello di allarme se ne è aggiunto uno, pochi giorni fa, (colto solo da Mf) piuttosto inquietante. Si è infatti scoperto che Atlantia (la società pompata dagli acquisti di Borsa e che ingloberà Gemina) ha «pending» una causa con lo Stato italiano da 800 milioni. Avete letto bene 800 milioni (su un fatturato di 3.4 miliardi): una roba da far tremare i polsi. Nessuno però era stato avvisato. E a quanto risulta al cuoco, neanche la famiglia Benetton, che diventerà proprietaria dell’unica società dopo la fusione, ne era al corrente. Tra poco parleremo di questo macigno, che potrebbe rivelarsi meno pesante del previsto, ma conviene fare un passo indietro.
Se un’azienda, che si deve fondere con un’altra, pagandola con le proprie azioni, è sottoposta a una minaccia legale di questo tipo, non deve forse avvertire tutti i possibili attori del pericolo in cui si trova? I consiglieri di amministrazione di Gemina che hanno votato a favore della fusione (ripetiamo noi: a condizioni certo non favorevoli) come potrebbero rispondere ad un azionista di minoranza che li incalzasse sul loro voto? Si rendono conto gli amministratori di Atlantia che non aver fornito questa informazione in un momento così delicato mette anche i loro azionisti di riferimento in serio imbarazzo? A quanto risulta al cuoco gli stessi dirigenti di Atlantia hanno scritto una lettera, protocollata al ministero, in cui chiedevano lumi sul procedimento legale. Una causa da 800 milioni può anche essere (e poi lo vedremo) fragile o temeraria, ma arriva dallo Stato italiano che si è reso parte civile. Il medesimo Stato che regola tutte le attività sia di Atlantia (autostrade) sia di Gemina (aeroporti). Che so, forse un sms, una letterina, una discussione si poteva affrontare prima di procedere ai concambi per la fusione. Tanto più che tra le condizioni contrattuali che potrebbero far saltare la medesima fusione (oltre alle necessarie autorizzazioni Antitrust ed Enac) è presente proprio «l’assenza… di ogni atto giudiziario che possa alterare il profilo di rischio o le valutazioni sui quali sono basati i concambi». Alcuni consiglieri di Gemina sono oggi comprensibilmente molto preoccupati.
Parliamoci chiaro: questa dimenticanza più che un illecito, sembra un ulteriore tassello costruito per far sì che l’operazione si concluda velocemente con massima soddisfazione degli azionisti di Atlantia e minore godimento di quelli di Gemina. Gli 800 milioni di cui parliamo sono infatti una delle solite follie della burocrazia italiana. Nascono da una incredibile valutazione del possibile danno ambientale che le Autostrade avrebbero provocato nell’eseguire la Variante di valico.
Secondo un’interpretazione talebana della norma del 2006 (peraltro già applicata ad altre imprese) si richiede non solo il costo del ripristino, ma anche un risarcimento danni. E per di più con la logica del costo massimo del ripristino ambientale. Una roba da pazzi. Ma sequestrare i coils dell’Ilva non lo è altrettanto? Su queste basi il ministero dell’Ambiente non solo si è costituito parte civile contro Atlantia, ma ha richiesto, per l’appunto, accantonamenti per 800 milioni. Come spesso avviene in queste occasioni (su questa materia un po’ ricattatoria abbiamo aperte varie infrazioni europee) si arriverà a una transazione: lo Stato chiede 100 e chiude a 10.
Ma resta un po’ di amaro in bocca. Prima le azioni comprate durante il periodo del concambio, poi nascondere la notizia della causa milionaria con il ministero, non un buon biglietto da visita per fidarsi delle operazioni societarie congegnate a Ponzano Veneto.