Il garantismo non vale per l’Ilva
L’Ilva, la fabbrica che produce acciaio con base a Taranto, è un caso perfetto per raccontare l’atteggiamento schizofrenico che abbiamo nei confronti del garantismo. Lo invochiamo in ogni dove, ma pensiamo di applicarlo solo ai nostri amici. Fino a questo momento non c’è una, che sia una, sentenza che decreti gli effetti inquinanti del complesso industriale. Non c’è una sentenza che certifichi le colpe dei suoi proprietari e dei suoi manager. Non c’è una sentenza che dimostri la frode fiscale della famiglia Riva. Il solo porsi una domanda sulla correttezza delle tesi accusatorie sembra sacrilego. Eppure nell’immaginario collettivo Taranto è come Chernobyl, i Riva come Al Capone e i dirigenti della fabbrica dei complici in disastro ambientale. Esageriamo? Sentite qua. La fase delle indagini preliminari (che è quella in cui siamo) ha portato alla carcerazione preventiva da un anno, tra gli altri, di Emilio Riva. I magistrati hanno sequestrato le aree a caldo (il cuore) dell’acciaieria. E, sempre in misura cautelare, hanno sequestrato anche un miliardo di suoi prodotti finiti. Una legge fatta dal governo Monti e che avrebbe permesso all’impresa di lavorare è stata bloccata dai magistrati di Taranto con un ricorso alla Corte costituzionale. Perso il ricorso, i magistrati otterranno più o meno lo stesso effetto grazie ad un sequestro monstre di 8,1 miliardi in capo all’azienda. In cui i capi reparto della fabbrica vengono accusati di complicità in reati ambientali. Per sovrammercato, un’altra Procura ha imputato ai medesimi Riva una frode fiscale di 1,2 miliardi. Tutto da dimostrare, davanti ad un giudice di primo grado. E poi, eventualmente, su per li rami della nostra giustizia. Nel frattempo, il governo Letta per tenerla in piedi ha dovuto commissariarla, un escamotage pericolosissimo per chi non considera la proprietà privata un furto.
L’Ilva è diventata il male assoluto. Questo articolo procurerà a chi scrive minacce e insulti di ogni tipo. Ma chiediamo soltanto e laicamente una cosa: siamo sicuri? Siamo certi? L’Ilva, i Riva e i loro dirigenti sono davvero indifendibili. La Confindustria fischietta e ci racconta le solite menate sindacali buone per un convegno a via Ripetta. Un suo uomo del Nord scriveva ad uno dei potenti vicepresidenti romani: «Sull’Ilva dobbiamo fare un casino. Ne va del futuro manifatturiero del nostro Paese. Una Confindustria seria dovrebbe capire che non si può bloccare un settore che vale 7 miliardi. Rischiamo un nuovo caso Fastweb, doveva essere la truffa del secolo e poi si è rivelata un robetta». La risposta del notabile romano: «Appunto. Una Confindustria seria».
L’Ilva è in coma. Ma ciò che in Italia è morto è un minimo senso garantista verso persone e cose oggetto di una così invasiva attività giudiziaria. Per poi ritrovarci tra qualche anno a piangere sulla perdita di un settore industriale strategico e magari con sentenze definitive che ridimensioneranno colpe e pregiudizi.