Confindustria a pezzi
Si tratta di sole poche settimane fa. Una riunione ristretta ad Arcore. Silvio Berlusconi nel pieno delle sue faccende politiche e giudiziarie si rivolge al nucleo stretto degli amici di sempre e dice: «Ma che ci stiamo a fare in Confindustria? Ci costa un sacco di soldi e non mi sembra rilevante. Sia per le nostre aziende sia per il suo atteggiamento complessivo». Silenzio tra i pochi presenti. Se non una voce, aziendale, che ribatte: «In effetti può essere come dici tu, ma ti sembra il caso di aprire un nuovo fronte?».
La cosa finisce qua. E probabilmente è finita per sempre. Ma si tratta di una boutade che rivela l’umore del Cavaliere nei confronti della presidenza di Giorgio Squinzi. Peraltro fortemente voluta proprio dal gruppo Mediaset. Il Biscione riuscì a far pendere la bilancia degli associati lombardi verso il grande imprenditore della chimica, che così per un soffio vinse contro il falco Bombassei. Oltre a Mediaset, mai stata in bilico nell’appoggiare Squinzi, fu determinante il pacchetto di sei voti che Paolo Scaroni, il numero uno dell’Eni, portò all’imprenditore lombardo.
Oggi la luna di miele con gli associati sembra essere finita. Persino il grande elettore di Squinzi, Aurelio Regina, è in freddo con il suo leader. Una buona parte del settore manifatturiero non ha capito e non capisce la prudenza di Squinzi sul caso Ilva. Sarebbe, dicono i meccanici e gli acciaieri, partito tardi nella difesa dell’impianto industriale e lo farebbe senza grande convinzione. D’altronde l’origine chimica (in senso di appartenenza associativa) di Squinzi si porta due eredità pesanti: l’atteggiamento privilegiato e trattativista con la Cgil e una certa sottovalutazione della dinamica, più dura, che la contrattazione collettiva dei meccanici richiederebbe. Il recente accordo con i sindacati firmato da Squinzi non sarebbe stato preventivamente approvato dal consiglio di presidenza. O comunque dibattuto nei modi tradizionali all’interno dell’associazione. E più di uno ha storto il naso per un’intesa, platealmente fatta in casa Pd e con la mediazione di Guglielmo Epifani.
Un ulteriore fattore di attrito si sta rivelando la cosiddetta commissione Pesenti. Che dovrebbe disegnare il futuro dell’organizzazione datoriale. Come ha confessato alla Zuppa uno dei partecipanti «più che della riforma della Confindustria si sta occupando della riforma dello Statuto. Norme, codicilli, funzionamenti che cambieranno poco o nulla della missione che ci richiederà il mercato nei prossimi anni». Ad una delle ultime riunioni persino i vecchi sacerdoti dell’organizzazione (da Abete a D’Amato) si sono chiesti a cosa servisse la Commissione Pesenti e addirittura se fosse più utile rimandare per l’ennesima volta.
Sarebbe ovviamente un ulteriore smacco per Squinzi. Che deve combattere con incrostazioni, anche burocratiche, che vengono dal passato e che non è semplice pulire, anche se dotati di Viakal. Abolire i comitati per il mezzogiorno o le territoriali più piccole è roba che scardina poteri costituiti da tempo.
Con l’effetto collaterale di sradicare la gran parte della rappresentanza meridionale (si salverebbe solo Napoli) in giunta (che si chiamerà consiglio generale). Una prima riunione direttiva per iniziare ad approvare la riforma è stata spostata al prossimo 10 ottobre. E in quella data si scoprirà il dilemma di Squinzi: se ritardare l’approvazione e fare una figuraccia o accettare una riforma che anche egli stesso non sente sua.
E i falchi di viale dell’Astronomia, gli sconfitti per un pelo, gongolano: «Squinzi è come il Sassuolo, ha fatto di tutto per andare in serie A. Ma una volta raggiunta non sa starci». Forse occorre un po’ più di rispetto per un imprenditore che ha comunque realizzato una delle più belle e innovative imprese in Italia.