Gli inglesi votano contro l’Europa non per i motivi ideologici per cui i conservatori di Margaret Thatcher dicevano: no, no, no. Votano contro perché non serve. Tanto che la polemica, non solo britannica, non è sull’opportunità politica, ma sui possibili costi.

Nessuno può ragionevolmente sapere come andrà a finire il referendum inglese sulla permanenza nell’Unione Europea che si terrà il 23 giugno.
Ai mercati, che hanno fiuto, non è stato ancora attribuito il potere di decidere i risultati delle urne: ci dicono però che l’incertezza è massima. Gli analisti, buoni per tutte le stagioni e per tutte le opinioni, amplificano o sminuiscono i possibili effetti economici su una possibile rottura del patto a 28 Paesi, a seconda dei loro pregiudizi. I burocrati europei tremano, figli di una religione brussellese. I ministri straparlano, e in questo caso i più ciarlieri e scomposti sono i tedeschi. Eppure il fenomeno Brexit ci dice già oggi molto.

L’Europa dei Paesi continentali ha assunto negli anni una dimensione spirituale, etica: è stata inizialmente un modo per imbrigliare le pulsioni aggressive delle nazioni che la componevano. Ha avuto l’ambizione di essere una supernazione, che non è mai diventata; si è rivelata piuttosto un Superstato, con la sua burocrazia e le sue regole. L’approccio anglosassone è stato sempre pragmatico. Serve l’Europa? E a cosa? Davvero 28 Paesi stretti insieme rappresentano una potenza geopolitica in grado di contrastare Stati Uniti e Cina?

Tanto più le popolazioni europee vedono il fallimento della dimensione pratica dell’Europa (dalla gestione dell’immigrazione alla competitività del blocco economico) tanto più ne trovano insopportabili i costi. Che non sono solo di bilancio, ma anche di progressiva riduzione degli spazi di sovranità nazionale. Brexit è un favoloso esperimento, fatto nel laboratorio più concreto della nostra Comunità.

Gli inglesi votano contro l’Europa non per i motivi ideologici per cui i conservatori di Margaret Thatcher dicevano: no, no, no. Votano contro perché non serve. Tanto che la polemica, non solo britannica, non è sull’opportunità politica, ma sui possibili costi. Poca filosofia e molta ciccia. Il ministro delle Finanze tedesco ammonisce gli inglesi non già per la rottura di un patto, non cita i soliti Adenauer, Spinelli e via discorrendo, ma più prosaicamente minaccia il Regno Unito di farlo uscire dal mercato unico, dai commerci.

Così come l’establishment italiano ha sposato l’euro (che la Gran Bretagna ha rifiutato) sottovalutandone i costi, così oggi, al contrario, sottovalutiamo i costi del suo possibile abbandono. Questo è il dilemma che saranno chiamati a sciogliere gli inglesi: quanto costerà abbandonare l’Europa e, a fronte di ciò, quali benefici ne arriveranno?

A ciò si aggiunge un’ultima considerazione, questa volta solo politica. Brexit è per il Regno Unito ciò che i partiti di protesta sono diventati per l’Europa. Uno schiaffo all’establishment e a Londra che ne è la sua sublime culla. In modo trasversale la politica inglese votando «No» all’Europa, vota contro la politica laburista e conservatrice londinese dell’ultimo ventennio. Ha ragione Bastiat, dove non passano le merci passano i cannoni. Ma è anche vero che il governo dei burocrati non può essere la soluzione.

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