Questo un regime? Ma va, pensate agli anni Settanta
Si sente dire in giro, sempre con maggiore insistenza, che ci stiamo avvicinando a un regime.
Lungi da noi giustificare alcune scelte, per così dire culturali, dell’attuale presidente del Consiglio. È riuscito a piazzare in Rai il conte Mascetti, che si intende praticamente solo con Paolo Mieli, solo perché il furbone (inteso come Mieli) fa finta di capire le supercazzole di FruFru. Non saremo dunque noi a difendere le scelte di Renzi. Ma gridare al regime ci sembra un po’ troppo. Semmai, come spesso avviene in Italia, siamo immersi in una farsa. In questa piccola biblioteca per liberali, abbiamo descritto spesso i terribili anni ’70, e l’egemonia culturale che ancora subiamo. Quello iniziato alla fine degli anni ’60 e che si è protratto fino alla metà degli anni ’80 è stato un ventennio di sangue e di conformismo. Il buio della ragione più che della Repubblica. Un ventennio in cui chi la pensava diversamente rischiava la vita, non solo la borsa. Gli anni in cui Sergio Ricossa fu cacciato dall’Unione industriale di Torino e dalla Stampa per le sue posizioni liberali. Dopo di lui dovette mollare Ronchey. Nel 1973 il Messaggero di Perrone non accetta Luigi Barzini come nuovo direttore, troppo anticomunista. Piero Ottone viene preferito a Spadolini al Corriere e nel 1974 Indro Montanelli e una pattuglia di «corrieristi» (tra cui il mitico Mario Cervi) sono costretti a inventarsi il nostro Giornale perché l’aria di via Solferino era diventata irrespirabile. Cosa che continuò a lungo. Ecco perché Sergio Ricossa, parlando degli intellettuali italiani, rispolvera Huygens – l’inventore nel 1600 dell’orologio a pendolo, scienziato, allievo di Cartesio – il quale li accomuna a quei «porci a cui se tiri la coda a uno gridano tutti». Per noi Ricossa è il padre degli intellettuali italiani. Nel suo bellissimo intervento raccolto nel volume Contro lo Stato massimo, edito nel 1998 da liberilibri, ha scritto: «Dobbiamo insegnare che lo Stato è il principale nemico della società civile, della morale, della libertà, dell’economia e del benessere».
Ecco, quando oggi ci preoccupiamo del regime, pensiamo a quegli anni, in cui le epurazioni non le faceva il governo, ma una bestia molto più pericolosa: il conformismo dell’intellighenzia. In questa rubrica ne abbiamo parlato spesso. Oggi volevamo solo manifestare il nostro ottimismo. La farsa non può mai essere pericolosa quanto una P38. I danni di quella ubriacatura furono enormi, chiusa la lotta continua degli anni ’70, l’Italia riuscì a perdere anche il treno della rivoluzione liberale. Non che il pregiudizio intellettuale nei confronti del mercato sia una prerogativa italiana o continentale. David Mamet di casa sua, scrive: «I liberal di Hollywood diventarono comunisti solo perché non avevano ancora inventato la ginnastica Pilates». I nostri intellò Pilates neanche se lo potrebbe permettere. L’intellettuale italiano è generalmente più triste del suo omologo, sia pure liberal, internazionale. È il giovane che non ha nemmeno il coraggio di andare ai funerali di Berlinguer (manco fosse Malcom X) e che, da solo, intristito, si mette a piangere nella cameretta del papà alzando il pugno chiuso (copyright, Francesco Piccolo). Pensiamo ai tempi di Ricossa, alle sue battaglie, al suo silenziamento e non lamentiamoci. Per carità.