Le toghe fanno saltare l’accordo perfetto sull’Ilva
Il pm patteggia con i Riva 5 anni e ottiene di investire nel gruppo 1,4 miliardi. Per il Gup è poco e salta tutto.
Storia di una follia giudiziaria. Che pagheremo cara. Il procuratore di Milano, Francesco Greco, un signore piuttosto tosto, mette sotto indagine una parte della famiglia Riva: Adriano, il fratello del patron dell’Ilva Emilio, recentemente scomparso, e i due figli.
Un’indagine che non riguarda le ipotesi di disastro ambientale relative agli impianti di Taranto. Su questo filone è iniziato il processo e vedremo nel futuro a cosa porterà.
Francesco Greco si occupa di reati finanziari. Nelle sue ipotesi i Riva ne avrebbero commesse di tutti i colori, dalla bancarotta fraudolenta alle false comunicazioni sociali. Semplifichiamo, per comodità. Il procuratore riesce ad individuare un tesoretto in Svizzera di circa 1,4 miliardi. In una prima fase il tribunale di Bellinzona nega ai pm italiani il malloppo, perché considera le ipotesi di reato vaghe. Ma Greco, alla fine, ce la fa e sequestra gli 1,4 miliardi.
Ha inizio una lunga e laboriosa trattativa. Prima con la famiglia Riva, poi con i suoi colleghi procuratori di Taranto infine con i commissari dell’Ilva di Taranto che, per conto del governo, sono diventati padroni dei cinque altiforni. Greco guarda al sodo. E si arriva a un accordo. I Riva cedono ogni pretesa sul tesoretto, si beccano dai 2,5 ai 5 anni per i reati contestati, e le procure di Milano e Taranto chiudono la vicenda giudiziaria. Sia chiaro: rimangono in piedi tutte le questioni relative al disastro ambientale.
A ciò Greco aggiunge una postilla formidabile: gli 1,4 miliardi così recuperati sarebbero andati diretti alla gestione commissariale di Taranto, che ha bisogno di quattrini come un topo del formaggio. Un miracolo di pragmatismo. C’è da aggiungere, a beneficio del lettore meno scafato dal punto di vista giudiziario, che i Riva sono solo indagati e non sono neanche stati ancora rinviati a giudizio per le vicende di bancarotta.
Come lo stesso Greco ha detto nelle settimane scorse, con il suo accordo sarebbero arrivati all’Ilva 1,4 miliardi entro marzo 2017. Altrimenti si sarebbero dovuti celebrare tutti i gradi di giudizio, con tempi che si allungavano dagli otto ai dieci anni. Inoltre nessuno può dare per certa la condanna dei Riva, posto che, fino a prova contraria, i processi si svolgono nei tribunali e non sui giornali o in Procura. Quello di Greco era stato un piccolo capolavoro giudiziario. Ma poi arriva un giudice, come è normale che sia, che due giorni fa dice che i soldi recuperati sono pochi e le pene patteggiate inferiori al dovuto.
Insomma, il giudice ritiene che l’impostazione di Greco e dei suoi colleghi di Taranto sia stata troppo generosa. 1,4 miliardi così sfumano, pur restando sequestrati: i Riva non potranno disporne e l’Ilva idem. Senza fare troppo i fenomeni, già i latini ci ammonivano: summum ius, summa iniuria, e cioè che di troppo diritto si muore.
Il Gup avrà fatto sicuramente il suo mestiere, avrà applicato il codice nei suoi dettagli, ma ha così stabilito l’esistenza in terra di un mondo perfetto, in cui siamo destinati tutti a morire di burocrazia e di codici e di procedura.
Dal punto di vista pratico, economico, si tratta di una follia. Così come alla fine potrà apparire anche dal punto di vista dell’efficacia giudiziaria, visti i tempi della giustizia, le prescrizioni e la forza anche dilatoria delle difese.
Nel frattempo l’impresa tarantina è in un declino inarrestabile. Per quanto bravi, i commissari (uno di loro, Laghi, sembra molto sul pezzo) non sono imprenditori. In quattro anni di gestione commissariale Taranto ha perso tre miliardi. La stessa azienda che con i Riva produceva più di 500 milioni di utili l’anno. La sua capacità produttiva si è ridotta a 5,5 milioni di tonnellate di acciaio, contro un punto di pareggio a 8. Metà dei dipendenti di Taranto (circa cinquemila) sono stati appena messi in cassa integrazione. L’altoforno numero cinque, il più produttivo, è stato inopinatamente spento e persino i nuovi potenziali acquirenti (ArcelorMittal) hanno dichiarato che sarà difficile riaccenderlo visto il costo dell’operazione.
Gli interventi ambientali, da cui è nata l’espropriazione dell’Ilva alla famiglia Riva, sono stati ridottissimi. La cosiddetta copertura dei parchi minerari (400 milioni) non è stata fatta perché mancano i soldi. La gassificazione degli altiforni, tanto strombazzata da Emiliano, viene giudicata anche dagli acquirenti impossibile, per il preciso motivo che praticamente nessuno la fa. Insomma, è un’impresa che divora danaro.
Ma per un giudice di Milano, quello recuperato dai Riva nei prossimi anni non lo potrà digerire. Forse meglio così per la famiglia che, perso per perso, se la potrà giocare in un lungo processo. Molto peggio per un sistema Paese, che smentisce anche un accordo pragmatico e vantaggioso fatto da uno dei suoi procuratori più prestigiosi.